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venerdì 2 settembre 2016

IL SILENZIO DI ABRAM MIO PADRE DOPO AUSCHWITZ



Di Marcello Kalowski



Edizione recensita del 2015,

Gius. Laterza & Figli (pag. 155)



Marcello Kalowski ci presenta la biografia del padre Abram e, senza indugiare, affronta subito quello che è stato il grande abisso della sua vita: la deportazione e le relative torture subite nel campo di sterminio nazista di Auschwitz.

"Queste pagine – avvisa l'autore - vogliono essere un omaggio a mio padre, un uomo buono, e a chi, come lui, i più, ha testimoniato con il silenzio l'impossibilità di sgretolare il muro apparso ad un certo punto della sua vita, separandola definitivamente dalla successiva esistenza".

Abram, sopravvissuto allo sterminio, porta con sé evidenti segni, indelebili: il marchio impresso sul suo braccio, e ogni volta che Marcello chiede al padre di raccontargli della vita della loro città natale - Lodz, in Polonia - e della sua famiglia e come abbia resistito ad Auschwitz, rispondendo con fatica, alza automaticamente la manica della sua camicia, mettendo a nudo il numero tatuato sul suo braccio. E con il braccio in chiara evidenza, racconta con dei flash, la deportazione, la vita, anzi la sopravvivenza, ma non compie mai un racconto organico.

Il figlio con tenacia insiste, chiede della sua vita a Lodz prima che l’Olocausto si abbatta anche su di loro, della sua famiglia, della vita religiosa, essendo parte di una famiglia ebrea in vista della città di Lodz.

Marcello si sbatte contro il silenzio, un vero e proprio muro eretto dal padre nei verso il suo passato, non solo e non tanto per proteggere il figlio da così grandi brutture, ma anche per proteggere se stesso, come se non affrontare quello che è stato con i suoi ricordi, potesse liberarlo. Prova la via dell’oblio, della dimenticanza, per uscire da un passato così ingombrante e doloroso.

E’ il ritratto di un uomo gravemente ferito dalla vita, ma che tenta oltremodo di riacciuffare quella vita che gli era stata strappata, nonostante contraddizioni, angosce e debolezze.
A tanti anni di distanza - e qui si spiega anche la difficoltà oltre che la ritrosia nel raccontare di Abram - Auschwitz lo ha ripreso, catturato, sotto le sembianze della depressione, un altro male che devasta l'anima. Ad un certo punto della sua strada, Abram cala come un sipario, cerca quasi di uscire dalla sua vita e il figlio racconta le strade che intraprende per far reagire il padre dalla sua chiusura, nel tornare a Merano, dove conservava felici ricordi, come recarsi con lui in Palestina, dove aveva sognato per tanto tempo un’esistenza nuova.

Il merito dell’autore è anche quello di essere un testimone della Shoah di seconda generazione, cioè, oggi che i testimoni diretti stanno scomparendo, la memoria vince sull’oblio di chi vorrebbe sotterrare l’innegabile.

Marcello inizia il suo racconto dal 1959, a Grottaferrata. La sua famiglia si trasferita in Italia dopo la guerra per ricevere da un ente assistenziale ebraico aiuto medico, finanziario e professionale ad ebrei sopravvissuti all’olocausto e che subivano l’insorgere di malattie contratte nel lager nazista.

La narrazione inizia con gli occhi di un bambino di cinque anni che prova gradualmente ad accettare e condividere la memoria della vita spezzata del padre.

L’originalità di questo testo è nel presentare come due libri in modo invertito: un dopo e un prima!

L’autore lambisce leggermente il racconto della vita nel lager nazista - ma non così tanto da rimanere schiacciato nella narrazione di nefandezze passate, ma con la lucidità di esporre la vita, seppur disturbata, dolorosa, ferita, di un uomo che ha provato nonostante tutto a vivere con nuove ambizioni, aspirazioni e sogni, nella speranza che non tutto fosse andato perduto, non solo del passato, ma anche del futuro.

Il messaggio che emerge è che il male di Auschwitz non si può estirpare per sempre dalla storia, come dalla mente e dalla vita di chi ne è stato testimone diretto o indiretto, perché segna indelebilmente e in profondità. Ma, non per questo un simile male può e deve essere l’unica esperienza che qualifichi o determini una vita. Il figlio, con il suo racconto, ha come costruito un ponte tra le due esistenze, del dopo e del prima di Auschwitz, perché ogni esistenza, pur con tutte le sue debolezze, ha il diritto, la nobiltà di veder riconosciuta la dignità e il senso di essere comunque vissuta.  

Germano Baldazzi
Roma, 02 settembre 2016

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