Viva gli Anziani!

Viva gli Anziani!
Scopri i contenuti del programma "Viva Gli Anziani!" e le attività

giovedì 27 ottobre 2016

SORELLA MORTE


SORELLA MORTE

La dignità del vivere e del morire

******


Edizioni PIEMME
Ed. 2016 (276pp.)

Il libro di Mons. Vincenzo Paglia – arcivescovo e attualmente Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, uomo di profonda cultura, autore di decine di saggi di carattere religioso e sociale – ha il coraggio di affrontare in maniera esplicita un problema della nostra quotidianità, del nostro futuro, di quello che abbiamo accanto, una cosa di cui non si può tanto parlare: la morte.
Sia il titolo, che la copertina, richiamano alla mente un’immagine francescana, un’ispirazione che guida la stesura del volume.
L’intento è di avvicinarsi e di capire meglio questo mistero che riguarda la vita.
Nelle sue parole troviamo una profondità di riflessione sul tema della morte, ma anche sulla vita che si conduce prima del momento ultimo, con spunti anche sorprendenti.

Le diverse citazioni con cui l’autore infarcisce il testo arricchiscono e permettono di scendere in profondità: sono tanti frammenti culturali, oltreché religiosi, che messi insieme, descrivono i tanti aspetti, anche drammatici, nella vita di una persona.
Per citare un caso, Paglia non nasconde il problema dell’incremento drammatico dei suicidi, anche tra i molto giovani, spesso a causa della mancanza di speranza nel futuro…
C’è una pesante cultura di morte che va sostituita con quella che Mons. Vincenzo Paglia chiama «Cultura dell’accompagnamento».
Il filo conduttore che guida la stesura del volume è nella dignità della vita, che per l’autore «Si chiama “noi”».
Nelle parole dell’arcivescovo emerge tutto il patrimonio di esperienza e di vita che ha acquistato condividendo la sua maturazione con la Comunità di Sant’Egidio che, sin dai primi anni si è incontrato con tanti amici, poveri, che di lì a poco avrebbero fatto l’esperienza della morte, come i malati, o gli anziani.
E nota: «Non ci si poteva non interrogare su questo tema».

Mons. Paglia analizza il termine “eutanasia”, il cui significato, oggi, viene falsato perché dal corretto significato “buona morte”, essa diventa “morte accelerata”. «Di questo si parla», chiosa l’arcivescovo.

Il volume si apre citando il volume la “La morte di moderna” di C. H. Wijkmark, un autore svedese, che diversi decenni orsono aveva previsto l’entrata in scena dell’eutanasia in un mondo in preda alla crisi economica, con l’idea assillante, quasi morbosa, di trovare il modo di risparmiare di tagliare spese, convincendo chi era improduttivo a «scegliere di togliersi di torno», per favorire i propri cari.
«A più di trent’anni dalla pubblicazione, un anziano signore belga organizza la festa la sera prima di sottoporsi all’eutanasia», con questa frase l’autore chiude l’introduzione!

Più avanti si chiede se non ci stiamo forse dirigendo «Verso una cultura di morte?»
In effetti, le legalizzazioni e le introduzioni di leggi in merito in alcuni paesi del Nord Europa lasciano intendere proprio questo. In particolare, nel 2002 in Belgio viene approvata proprio una legge sulla depenalizzazione dell’eutanasia.
«La legge stabilisce che il medico venga protetto da qualsiasi procedimento giuridico se segue la procedura prescritta», anche se con dei limiti: si devono riscontrare elementi di sofferenza fisica e psichica durevoli, o stato di coma, ecc.
La convinzione era che con la depenalizzazione essa sarebbe rimasta relegata ad un’eccezione, ad una “estrema ratio” in casi limite. Invece, la pratica si è estesa, perché – ammettono gli studiosi – «una volta ammesso ed introdotto il principio, diviene impossibile impedirne l’allargamento dell’utilizzo».
I precedenti creati in tal modo hanno fatto saltare i freni alla sua applicazione, commenta l’autore. Tanto che la legge si è estesa a comprendere anche i minorenni: anch’essi da qualche tempo possono richiedere l’eutanasia.

In una delle presentazioni del libro, l’autore racconta di una festa organizzata all’Ospedale “Spallanzani” di Roma, con i malati di AIDS, per festeggiare il 31 dicembre, sapendo che probabilmente per molti di loro sarebbe stato l’ultimo capodanno.

«Come credenti non potevano non interrogarsi sulla morte, e sull’accompagnamento negli ultimi momenti». «Allora, la morte non ci è estranea», dice.

E aggiunge:

«Ma la società, spesso, non vuole parlare di questo momento, lo scarta, lo nasconde o lo allontana, e invece si è alzata per proporre l’eutanasia come soluzione. Ecco le ragioni per la stesura di questo volume, vuole essere una contestazione alla cultura dello scarto, così forte, che vorrebbe non scartare le vite improduttive o malate, ma proprio eliminarle. In mezzo al silenzio di parole su questo, bisogna iniziare a parlarne - perché a forza di non parlarne, si diviene muti - perché la morte non è “cattolica”, ma è di tutti.
La morte chiede di essere accompagnata e abbiamo bisogno di parole per capirla.
Anche la fede di oggi chiede nuove parole per capire, anche la Chiesa chiede nuove parole per parlarne. Ausilio per aiutare a far crescere una serie di sentimenti, pensieri, idee che alla fine la circondano e rompono il pungiglione della morte».

Invita anche ad una riflessione profonda su come certe volte usiamo il tempo che ci è dato e i comportamenti che usiamo nei rapporti con gli altri. E prosegue:

«Alla luce della morte le nostre arroganze (…) appaiono del tutto ridicole. Ed è l’umiltà ad essere sollecitata dalla coscienza della debolezza umana».

Poi, nota:

«Dio non ha creato la morte, non ve ne è traccia nella creazione. Infatti, la morte fa paura perché è estranea a Dio, è “contro natura”».

E confermando il concetto della povertà di parole pronunciate sul morire, aggiunge:

«Il mondo, in effetti, ha bisogno di nuove parole per parlare della morte: gli stessi credenti hanno bisogno di nuove parole sulla fede, sulla vita eterna, sul “dopo”. L’intento di questo lavoro è ricevere un ausilio per capire il mistero della morte che, in realtà, è un atto che riguarda la vita, il suo momento estremo, ma pur sempre vita.
Le persone vogliono vivere, anche i malati. Dietro ad ogni persona c’è qualcun altro, che sia moglie, figli o nipoti, fratelli o sorelle, insomma il contesto personale. E la richiesta di eutanasia non tiene conto del contesto, degli altri.
Un genitore che ha un figlio che può vivere 6,7 mesi, quel tempo è una ricchezza e la gente si aggrappa a questo, nell’attesa che la scienza, progredendo, trovi un rimedio per quel male. La speranza per una nuova terapia c’è sempre.
La vita è legata ai rapporti che noi abbiamo, siamo legati agli altri in maniera inscindibile: “Io ho la libertà di decidere per me”!
E gli altri?»

Nella proseguire la lettura si capisce presto che questo libro analizza la vita con la sua dignità ricevuta dalla presenza del prossimo e di una vita impegnata da e per gli altri, infatti:

«È possibile che una persona possa vivere senza gli altri? Dal punto di vista biologico, si, ma da quello umanistico direi di no....
La vita è degna quando stiamo vicini gli uni agli altri. La dignità si chiama “Noi”!
Per cui stare legati agli altri sei mesi in più è un valore enorme. Più si sta con gli altri e meno ci si dispera, si ha più forza. La solitudine è l’inferno, la vita è tenersi per mano».

Proseguendo nel suo ragionamento, porta un esempio semplice, un paragone che spiazza e che induce a riflettere:

«La vita inizia tenendosi per mano, come si tiene in mano il bambino che nasce dalla pancia della mamma. Questo tener per mano che viene dall’inizio deve durare fino alla fine. E non si può dire che l’anziano ha l’arteriosclerosi e non capisce, magari è intubato, perché il bambino, quando è ancora legato con il cordone ombelicale (naturale forma di intubazione!), non capisce, non sa nulla, piange, ma è tenuto per mano e lui lo sente! Lo capirà più tardi, ma lo sente. Così anche alla fine della vita, essere tenuti per mano… noi pensiamo che uno non senta. Ma cosa ne sappiamo!
Allora, l’eutanasia o l’abbandono è il peccato cruciale della nostra società!
Il peccato che riassume l’inferno di oggi è l’abbandono!
Il sentirsi legati gli uni agli altri è il tema della dignità. E il legame che continua in ogni momento, questo può chiamarsi Paradiso!»

In queste poche parole si sente non solo la lontananza dai pensieri e dalle parole dei protagonisti del romanzo citato all’inizio del volume, sull’eliminazione degli improduttivi della società, ma anche l’errore di prospettiva nel non considerare il valore, e la dignità della persona umana anche nello stato terminale o in uno dei momenti più difficili, dove invece di stare vicino e sostenere, si abbandona il debole.

Paglia riflette anche sul legame che da sempre abbiamo con il mese dedicato ai defunti:

«Questo libro vorrebbe essere uno strumento per capire questo mistero che ruota attorno alla morte e aiutare anche gli altri a capirlo. Milioni di persone si recheranno in visita nei cimiteri nel mese di novembre. Non tutti hanno un discorso, saprebbero spiegare il senso di un simile gesto, ma vi andranno.
Se avessero parole sulla morte sarebbero più consapevoli, perché il mistero della morte per noi cristiani è parte centrale della vita. Perché la morte non è più forte della vita, riguarda tutti, ma da Gesù sappiamo che la morte non è la più forte. Per questo la chiamo “sorella”.
Pensare come dirlo e come viverlo. La debolezza è parte della vita dall’inizio alla fine, la medicina della debolezza è la compagnia.
La morte non è la fine, perché per Gesù non è stato così. È stato un momento di passaggio, infatti il tempo della morte di Gesù si chiama Pasqua, e significa “passaggio”.
Noi cristiani non crediamo nell’aldilà, ma noi crediamo nella vita eterna e lo recitiamo nel Credo, cioè affermiamo che la vita non finisce, continua e la morte altro non è che una porta difficile, terribile.
Tuttavia non è la fine.
Allora, con il volume provo a riflettere su tutto e a descrivere i vari momenti di questo passaggio.
La gente ha bisogno di sapere e capire queste cose. La morte è una cesura, ma fino ad un certo punto.
Il passaggio della nascita è drammatico per la mamma e il figlio e il figlio non sa come sarà dopo la vita, analogamente accade il passaggio attraverso la morte.
Ecco perché il passaggio è importante.
Il paradiso e l’inferno non sono solo dopo, ma sono pure prima. Dipende da che vita uno si trova a fare, di quale vita stiamo costruendo ed influirà poi nella vita di domani.
Il tutto è scritto in un linguaggio “non clericale”, in modo che possa essere avvicinato e compreso da tutti.
Non credo ma vado a tutti i funerali: che tristezza. Noi non abbiamo parole, con questo libro vorrei fornire uno strumento di comprensione per chi muore e chi resta.
Stare vicino a chi soffre può aiutare a vivere e a vivere meglio e ad essere confortati anche nei momenti che sembrano i più disperati».

«Il senso è quello di voler togliere il pungiglione alla morte».

Con queste parole l’autore conclude il suo intervento alla presentazione.
Un libro importante, di grande valore, sulla complessità della vita, che porta a leggere la morte essa sia uno dei tanti atti della vita umana.  La lettura ci accompagnerà alla riflessione e alla ponderazione di molti comportamenti, sul senso di essere chiamati ad allargare gli orizzonti della vita personale. E illustra che può esserci un futuro anche per chi è malato o verso il termine dei suoi giorni, non con occhi rassegnati, ma come un tempo donato da sfruttare fino in fondo, ciò che si vive e si compie non è mai senza senso.



Germano Baldazzi
 Roma, 27 ottobre 2016

martedì 11 ottobre 2016

LA MORTE MODERNA

Di Carl-Henning Wijkmark

Con la Postfazione di Claudio Magris

Edizione del 2008
Ed. Iperborea (120pp.)

Un testo apparso nel 1978, che l’editore ripropone per l’attualità dei temi trattati. Colpisce che il tema dell’eutanasia “la buona morte” viene trattato dall’autore, già nel 1978, nei medesimi termini in cui oggi alcuni paesi europei hanno legittimato la discussione e legalizzato il suo esercizio.
Wijkmark colloca il suo racconto in Svezia: il paese vive una drammatica crisi demografica ed economica; gli anziani da assistere e a cui pagare le pensioni sono tantissimi.

Il volume si apre con l’apertura del convegno che vuole ragionare sul progetto “USTAU” (Ultimo Stadio della vita Umana). Il convegno si svolge a porte chiuse, i partecipanti sono scelti accuratamente, appartengono ai campi della scienza, economia, medicina e religione.
L’argo
mento del convegno è top secret: i partecipanti saranno chiamati a ragionare e a decidere delle sorti di malati, handicappati, anziani; insomma, di coloro che ormai sono gli “improduttivi” della società, in una visione di massa (e non dal punto di vista umano!).
Nonostante l’autore fa riconoscere ai convegnisti che “Morire è considerato innaturale”, afferma anche che ci sono troppi anziani e pochi bambini, ergo la popolazione attiva è infinitamente inferiore a quella inattiva, composta da pensionati e non autosufficienti. In più, essendo reduci ormai da anni di spot sulla necessità di vivere facendo sport, fitness, oggi i vecchi erano persone in gamba e in salute, con aspettativa di vita oltre gli ottant’anni.
La società, in conseguenza di questa realtà, paga in termini di disoccupazione, di spese per il welfare, e soffre per una tassazione alle stelle.
Nel convegno si discute e si riflette su una soluzione da proporre e praticare.
L’incipit del ragionamento potrebbe filare, in un contesto razionale, ma decisamente inumano:
Tutti noi nasciamo alla stessa età, perché non dovremmo anche morire alla stessa età?

Così, a turno, gli esperti prendono la parola animati dall’idea di uscire da un'impasse dovuta ad ideali e valori quali “sacralità”, “assoluto”, “intangibilità”, che sono ormai antiche parole e, come tali, retaggi del passato, non più adatti a fare i conti “economici” con l’oggi.

«Ciò che si vuole è produzione, non civiltà. Cose, non esseri umani», dice uno dei partecipanti al simposio.

In effetti, si osserva, si è riusciti a far accettare la pianificazione delle nascite attraverso l’aborto, cosa potrebbe fermare una pianificazione dei decessi? L’unico scoglio è nel far passare con i dovuti termini l’idea della morte moderna.

Insomma, si arriva a discutere su come introdurre una eutanasia di stato garbata, ragionevole, talmente naturale che l’anziano o il malato la vedrà su di sé come un obbligo volontario per il bene della società, una volta raggiunta una certa età.
Infatti, si fa avanti la teoria del valore del primato sociale su quello umano: meglio che muoiano pochi vecchi malati, che crolli la società nel suo complesso.

Il titolo della postfazione di Claudio Magris offre uno spunto di riflessione, bilanciando un po’ dando il nome giusto ai termini: “Democrazia della morte – Morte della democrazia”.

Nella sua analisi, Magris afferma che, a voce di una sedicente democrazia, essa esige la libertà del cittadino e deve agire secondo convinzione. La convinzione dei partecipanti al convegno è che bisognerà convincere anziani e malati - costosi per una società così in crisi – a farsi da parte, richiedendo di morire. Infine, l’autore fa notare come con tanta facilità si senta parlare di un’azione fatta con buoni sentimenti verso i malati e sofferenti e di misericordia verso quei genitori che dovrebbero portare il peso di un amore parentale gravato dal senso di colpa per aver fatto nascere un figlio malato.

Un testo duro, che parla e infonde uno scossone anche alla società di oggi con le sue provocazioni, precorrendo i tempi rispetto ai dibattiti e alle leggi introdotte già in alcuni paesi, ma che in parte fa ricordare anche tristi e tragici trascorsi della storia, come gli atti terribili operati dai nazisti, prima e durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale nei confronti dei disabili e dei malati in genere, con l’oppio del miti della razza.

Un testo non semplice da afferrare e discernere, per non cadere in semplificazioni o giudizi semplicistici.


Germano Baldazzi
 Roma, 11 ottobre 2016

lunedì 3 ottobre 2016

LA PAURA DELL’ISLAM

La questione islamica, il conflitto tra generazioni, gli equivoci dello scontro di civiltà

Di Olivier Roy
Conversazioni con Nicolas Truong
Edizione del 2016
RCS (108pp.)


La visione dei fatti di Olivier Roy è singolare, affascinante perché in controtendenza rispetto alle interpretazioni epocali in questo momento prevalenti. Una voce che vale la pena di essere ascoltata. (Dalla prefazione di Stefano Montefiori)



«Non c’è nessuna comunità musulmana, ma c’è una popolazione musulmana. Accettare questa semplice constatazione sarebbe già un buon risultato contro l’isteria presente e futura».


Siamo dinanzi ad un testo snello e molto ben scritto che aiuta a comprendere le categorie per entrare in una realtà complessa, molto diversificata, molto più di quello che i media comunicano nelle semplificazioni quotidiane.
Sono gli interventi pubblicati da Olivier Roy su Le Monde dall’11 settembre 2001, al 24 novembre 2015.
L’autore, a detta di molti studiosi, è il più grande esperto e conoscitore vivente dei rapporti tra Islam e Occidente.

Egli contesta le due visioni prevalenti dell’Islam; una che vorrebbe l’Occidente in parte responsabile del terrorismo, e l’altra che l’Islam sarebbe fomentatore e fornitore della base della Jihad (la guerra santa).
La sua lettura non verte sulla periferia, lui crede che il problema non venga dalla vita che si svolge nelle banlieue di Parigi, per fare un esempio.
Lui pensa ai convertiti, cittadini benestanti non cresciuti tra le discriminazioni anti-islamiche, perché non si erano ancora convertiti all’epoca dei fatti. Non hanno, quindi, nemmeno subito atti discriminatori.

In effetti, la tesi dello studioso è che i prodromi dei futuri islamisti radicali vadano ricercati nel nichilismo che ha ispirato alcuni giovani; e il conflitto generazionale con i “vecchi” della famiglia. Stiamo assistendo - e non è un gioco di parole - non alla radicalizzazione dell’Islam, ma all’islamizzazione del radicalismo.

Il governo francese, nei suoi interventi armati in Medio Oriente e Africa non è responsabile della risposta terroristica nel suo paese, ma ha invece responsabilità nello spingere ad una laicità come religione di Stato, per contrastare l’avanzata dell’Islam. Ma, così facendo, viene meno al valore di Laicité della République.

Nei suoi diversi interventi, l’autore prima rileva come i genitori musulmani dei giovani radicalizzati francesi non comprendano la scelta dei loro figli, e cerchino di opporsi al loro passo di radicalizzazione: così, o li vanno a riprendere, o li denunciano alla polizia.
Il risultato che i giovani jihadisti ottengono è quello di aprire un contrasto generazionale nelle famiglie; famiglie che non hanno nemmeno un passato di pratica religiosa, anzi, sono ai margini delle comunità musulmane.
Roy ci spiega che in questi giovani avviene una sorta di “rinascita” e dichiarano il loro nuovo credo, con un nuovo “io”  e una voglia di rivincita, con un fascino per la morte.
Pochi di loro hanno frequentato le moschee: tra quelli che vanno in Siria nessuno si integra, né si interessa alla società civile; nessuno ha frequentato i Fratelli musulmani, nessuno ha militato in movimenti politici.
Si radicalizzano attorno ad un piccolo gruppo di compagni, ricreando una sorta di famiglia.

Roy nota come i terroristi non siano l’espressione di una radicalizzazione, ma più il riflesso di una rivolta generazionale.

In un altro intervento, osserva come i soldati musulmani di nazionalità francese siano leali nei confronti della Repubblica francese, partendo per andare a combattere dove viene loro chiesto, anche contro altri musulmani e sono molti i caduti in guerra.
Secondo lo studioso è in funzione un “laboratorio di integrazione”, nonostante le cronache spicciole permettano che il “jihadismo” vada in prima pagina e gli episodi di integrazione, invece, finiscano nella cronaca locale, o in trafiletti minori.

  Germano Baldazzi

     03 ottobre 2016