Viva gli Anziani!

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venerdì 23 aprile 2021

 

Come un pesce rosso

di Michelangelo Bartolo

infinito edizioni (2021) 96pp.

 (tratto da Notizie/Italia/News)

"Ci troviamo dinanzi ad un titolo strano, fuorviante, ma non per chi conosce lo stile di Michelangelo Bartolo e ha avuto la fortuna di leggere i suoi precedenti volumi…

Stavolta, l’autore interpreta sé stesso, non in una fiction, o in peripezie vissute oltre la linea dell’equatore, a cui ci ha già abituato nei precedenti scritti: stavolta il protagonista – seppur involontariamente – è lui con la sua… diagnosi!

Lui che, suo malgrado, con una gravissima emergenza pandemica ancora in atto e pur avendo una specializzazione diversa, è chiamato dal superiore a “dar una mano” al reparto “Pneumo Covid 2”!

Non che in lui difetti la capacità di adattarsi a situazioni ai limiti del parossismo, ma stavolta..."

 PER PROSEGUIRE LA LETTURA  COME UN PESCE ROSSO

 

 

venerdì 16 marzo 2018

INSEGNARE LA CATASTROFE

Discorso sulla didattica della Shoah

   Di Carlo Scognamiglio

Ed Stamen, 2017 pp.118

Siamo dinanzi ad un testo importante per chi vuole spiegare una vicenda, tanto terribile e dolorosa per l’umanità, ai giovani di oggi, nel tempo in cui stanno venendo meno i testimoni diretti dell’Olocausto, che ha inghiottito milioni di uomini e di donne.

La “didattica della Shoah” è un tema che non può essere più tralasciato, in quanto, fino ad oggi abbiamo avuto la testimonianza diretta dei superstiti alla Shoah. Testimoni, sempre meno data l'età elevata dei sopravvissuti, che ancora si recano nelle scuole, viaggiano cercando di incontrare più studenti e persone possibili, per raccontare tutta la violenza e la disumanità di quanto abbiano subìto tutti i “diversi” dalla cosiddetta “razza ariana”.

L’autore cita subito il ruolo educativo e storico-culturale riconosciuto al Museo dello Yad Vashem di Gerusalemme, luogo dove sono raccolte tutte le storie delle vittime di questo immenso crimine.

Molto interessante il taglio utilizzato nel libro, in quanto non si limita ad una narrazione degli orrendi fatti vissuti nei campi di sterminio, ma scende nei dilemmi morali in cui rimanevano legate le vittime, ma anche le circostanze che narrano le decisioni di coloro che erano gli aguzzini morali e materiali. Così facendo, l'autore non sottende responsabilità e ruoli dei singoli, come anche la responsabilità collettiva, che porteranno verso quella che sarà una catastrofe immane.

Scognamiglio, da subito, sottolinea la vocazione “universalistica” della memoria della Shoah: gli ebrei erano il primo bersaglio della “soluzione finale”, non gli unici.

L’impegno dell’autore è nel cercare una didattica adeguata per spiegare agli studenti dei diversi cicli non esclusivamente la narrazione storica degli episodi, quanto la logica, lo sforzo che i nazisti fecero per cancellare la memoria storica dei perseguitati. Questo per dare modo agli studenti di avere gli strumenti per entrare nel “perimetro esistenziale di quel destino”, a cui erano condannate le vittime dai nazisti.
In modo che, i ragazzi, oltre al provare compassione, possano quasi immedesimarsi nelle vittime e capire quasi dal di dentro l’angoscia, i patimenti e soprusi subiti.


Seppur folle, disumana, e distruttiva, la Shoah, però non è inspiegabile: l’autore lo dice chiaramente, citando e ripercorrendo gli scritti e il pensiero storico di coloro che non rinnegarono il nazionalsocialismo né il nazifascismo, ma ne giustificarono l'opera, quando  addirittura non incitavano alle persecuzioni. Ma, vi furono pure autori perseguitati che sopravvissero per divenire poi narratori, testimoni; come, anche, ci furono coloro che non presero posizione. Infine, dobbiamo citare anche i cosiddetti “segnalatori d’incendio”, cioé pensatori e scrittori che denunciarono il pericolo della deriva antisemita che stava incendiando tutta la società.

Tutto questo lavoro culturale serve all’autore per sostenere che la catastrofe ebraica non è oltre la storia, non è “extratemporale”, ma porta a far ammettere che l’uomo è capace di simili crudeltà, e una tale capacità è potenzialmente presente in ciascuna persona e, come è presente, allora così sono spiegabili tanti atti di crudeltà.

Un’altra operazione dell’ideologia nazista ricordata dall’autore è nella legittimazione che i nazisti diedero al loro odio, giustificando così le loro raccapriccianti azioni: rappresentando, cioè, le vittime come “subumani”, “ignobili”, “inferiori”, quindi indegni di vivere.
Per contestualizzare, l’autore cita i fenomeni contemporanei di bullismo: i tratti personali delle vittime dei bulli danno la vocazione alla subalternità: come se la sorte di essere sottomessi da qualcun altro fosse un destino ineludibile.

Altro aspetto citato è il “conformismo”, prendendo in prestito e citando gli studi e le opere di Bauman, Goldhagen ed Hilberg. Lo sterminio fu possibile, non solo per un’ostilità, un sentimento antiebraico diffuso nei tedeschi, quanto anche per una più diffusa indifferenza, se non proprio una diffidenza verso i ... "diversi".

Un'altra idea diffusa che il volume smonta è quello dell’“italiano brava gente”, che non ha collaborato con i nazisti, ma che anzi, tutti abbiamo nascosto e difeso i perseguitati. Come anche l’idea che il fascismo non ebbe le responsabilità dell’alleato nazista.

La verità è che i i due regimi collaborarono per la Soluzione finale, e tranne qualche caso isolato, mai nessun gerarca fascista si oppose alla deportazione dei "non ariani".

L’autore parla dei materiali didattici presenti allo Yad Vashem per gli alunni delle scuole primarie, preparati con accorgimenti che permettono di spiegare concetti e vicende, altrimenti difficilmente immaginabili. La stessa idea di appartenenza ebraica, in quanto la vita di prossimità con gli ebrei in molte città europee si è interrotta a causa della guerra e non si è ricostituita, è un concetto complesso da spiegare in astratto.

Risultati immagini per yad vashem

Una novità la si registra con le difficoltà per i discendenti delle vittime della persecuzione nazista, cioè i figli o i nipoti di coloro che hanno vissuto la persecuzione nazista o anche la reclusione e la deportazione. L’autore si sofferma a ragionare sul possibile comportamento da tenere con i bambini, se tenerli all’oscuro degli episodi più tremendi o se, invece, dare tutte le informazioni chieste da bambini sempre più curiosi.

Alcuni studiosi hanno elaborato la tecnica del racconto teatrale, per provare ad aumentare il distacco, perché la paura può essere un fattore determinante per avere o meno un quadro lucido degli avvenimenti. Qui, forse, possiamo trovare le pagine più “originali” del volume.

C’è poi il problema della complessità della storia da far comprendere ai ragazzi sulla didattica della Shoah, perché l’Olocausto storicamente non ha vissuto una sua linearità nell’applicazione, ma fu il “risultato di un sistema intessuto di piccole iniziative, illuminate da un impianto ideologico forte, che esigeva un’adesione fideistica”, annota Scognamiglio. Inoltre, i nazisti si impegnarono per cancellare più prove possibili dei loro misfatti, ma i testimoni, nonostante l’oppressione e il tentativo di annientare le menti oltreché i corpi dei deportati, non riuscì. Tantissimi furono i testimoni.

L’autore porta l'esempio di un famoso studioso: lo psicanalista austriaco Bruno Bettelheim che fu rinchiuso per alcuni mesi nel campo di Dachau, vivendo direttamente la deportazione, la degradazione e la tortura, ma che riuscì a salvarsi dalla morte.
Da internato, nonostante le privazioni e le torture, riuscì a compiere uno studio molto interessante sulla condizione dei prigionieri, osservando e registrando le variazioni dei loro comportamenti nel tempo.

Le ultime pagine del volume, l’autore le dedica ai sopravvissuti e racconta cosa hanno fatto dopo la liberazione: in alcuni tratti la narrazione è sorprendente, mai ci si attenderebbe quanto l’autore scrive nelle ultime due pagine in merito alle vicende di coloro i quali riuscirono a sopravvivere a tanto male.

In conclusione, ritengo la lettura di questo volume molto istruttiva, non solo per chi abbia figli giovani o incarichi di didattica, ma per tutti coloro che sanno di non sapere mai a sufficienza e di non aver ancora imparato tutto della vita!
Così saprete anche cosa l’autore scrive al termine del suo libro che - ripeto - consiglio a tutti di leggere…

Germano Baldazzi

15 marzo 2018

martedì 24 ottobre 2017

PRESIDENTI

Le storie scomode dei fondatori delle squadre di calcio di Casale, Napoli e Roma

 

di Adam Smulevich


Ed. Giuntina, 2017 pp.138

La questione razziale fu una tragedia per l’Europa durante il regime nazista. Ma, in pochi sanno che, in Italia, anche il calcio fu investito dall’onda antisemita, che prima estromise gli ebrei dallo stato, poi, dalle posizioni di comando, infine dalle proprie case e città.
In particolare, nel cosiddetto “Ventennio fascista”, il gioco del calcio aveva già preso piede, vi era un campionato nazionale regolare dalla fine dell’Ottocento, e alla vigilia dell’entrata in vigore delle leggi razziali, tre presidenti di squadre di Calcio della Serie A, avevano origini ebrei, o meglio, le loro famiglie avevano origini ebraiche.
Raffaele Jaffe (foto de l’Avvenire)
In particolare, Raffaele Jaffe, Presidente del mitico Casale, l’unica squadra che riuscì a soffiare uno scudetto al predominio assoluto della Pro Vercelli, capace di vincere scudetti a ripetizione, partendo con una squadra fondata con un gruppo di ragazzi, fino ad arrivare a giocarsi lo scudetto e a conquistarlo.
Jaffe si era convertito al cristianesimo in tempi “non sospetti” per via del matrimonio contratto con la cristiana Luigia Cerutti, ma ciò non lo preservò, dopo alterne vicende, dalla deportazione verso il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, in cui non riuscì a sopravvivere.
La storia della squadra del Casale ha quasi dell’epico, ma che è forse delle tre narrazioni, la vicenda più bella da raccontare e da conoscere, perché riporta il mondo del calcio a quello che era: una passione sportiva. Infatti, tutto nasce con i primi passi di alcuni di ragazzini della scuola che, in un prato e con un improbabile pallone di cuoio, riescono a creare un gruppo di giocatori che, quattro anni più tardi, diverrà una squadra a tutti gli effetti, in grado di competere con le migliori, compresa la storica rivale della Pro Vercelli. 
 Squadra di Casale, Campione d'Italia 1914 (foto de l’Avvenire)
Crebbe così tanto da giocarsi una epica finale contro la Lazio, per lo scudetto del 1914. La ricostruzione dei fatti compiuta dall’autore, grazie alla documentazione dell'epoca, è un vero capolavoro!

Degno di nota è anche la nota di cronaca, non certo secondaria, oggi, di come furono accolti gioiosamente i giocatori della Lazio (ultima avversaria per lo scudetto) a Casale.



Giorgio Ascarelli (Foto de l'Avvenire)
Segue poi la narrazione della storia del presidente fondatore dell’Associazione Calcio Napoli, Giorgio Ascarelli, ebreo anch’egli, che aveva uno fatto costruire uno stadio nuovo all’avanguardia per quegli anni. In quegli anni, nel 1932 all’Italia venne assegnato l’onere e l’onore di ospitare i Campionati Mondiali di Calcio, e lo stadio intitolato al mecenate ebreo Ascarelli, non poteva passare inosservato ai nazifascisti.

Così venne imposto di cambiare nome allo stadio, nel 1934 la partita tra Austria-Germania si sarebbe giocata nello stadio “Partenopeo”, nascondendo l’“infamia”, della nazione ariana giocasse in uno stadio creato da un ebreo. E così fu.

Più degno di nota, forse, è la vicenda che riguarda il padre fondatore della A. S. Roma, Renato Sacerdoti che aveva creato per la squadra il famoso “Campo Testaccio” far allenare e giocare le partite. Sacerdoti era un bravo uomo d’affari, facoltoso. Documenti dell’epoca testimoniano il suo orgoglio nell’essere un fascista convinto della prima ora e, nel tentativo di non incorrere nelle persecuzioni, abbandonò la religione ebraica nel 1937.
Renato Sacerdoti (foto de l’Avvenire)

Ma non servì a nulla, infatti, alla prima occasione, venne accusato di esportare illegalmente valuta. Serviva un capro espiatorio, un personaggio negativo da sacrificare agli occhi dell’opinione pubblica, e venne additato come traditore della patria, con l'accusa di nascondere soldi.
Inutili le difese e Sacerdoti, nonostante la lunga e convinta militanza, fu condannato al confino per 5 anni.

Un testo interessante, che apre uno spaccato su cui poco si è fatta luce, ma dove la miopia di un regime che andava contro i propri interessi, accanendosi anche contro i propri militanti non mancò di venire a galla, fino ad uscire e fino a minare nelle fondamenta il regime fascista, già “commissariato” dai nazisti tedeschi.
Arricchiscono il volume tutta una serie di fotografie d’epoca dei protagonisti e delle squadre, come anche le lettere inviate a Mussolini dai diversi presidenti spiegando, inutilmente le loro ragioni e la loro fedeltà al fascismo.

venerdì 4 agosto 2017

POPULISMO E STATO SOCIALE


Di Tito Boeri

Edizione del 2017

Ed. Laterza e figli (98pp.)



“L’affermazione del populismo è figlia della perdita di credibilità della classe dirigente e di uno stato sociale che non è in grado di proteggere ampi strati della popolazione dai cambiamenti indotti dalla globalizzazione e dal progresso tecnologico. Occorre dare risposte innovative, eliminando i trattamenti di favore di chi ha posizioni di potere e rendendo la protezione sociale più efficiente nel raggiungere chi ha davvero bisogno d’aiuto”. (dalla IV di copertina)

Il testo agile e comprensibile anche ai “non addetti ai lavori”, riesce lucidamente a focalizzare i punti che l’autore tocca.
Riesce in poche pagine a spiegare chi sono i populisti, da dove arrivano e i motivi per cui conviene affrontare i problemi reali della società di oggi, piuttosto che lasciare il campo ed esperienze (fallite) del passato.

Nell’introduzione l’autore annuncia che spiegherà perché i populismi offrono risposte sbagliate, non altezza dei problemi reali, profondi, di milioni di cittadini.
Nel dipanare la sua analisi, Boeri cita Alexis de Tocqueville:


La democrazia dei populisti e la democrazia diretta che assegna un potere assoluto alla maggioranza, trasformandosi paradossalmente nella dittatura della maggioranza in America”.

L’autore spiega chi erano i cosiddetti populisti di ieri e il risultato che si prefiguravano: quello di blindare il proprio paese con il protezionismo e chiudendo le porte ai tanti migranti che bussano ai nostri paesi; anziché permettere un arricchimento economico e sociale, portando a compimento il processo di unione europea.
Aggiunge, poi, come questa linea tolga speranza ai giovani (anche italiani), perché impedisce loro di trovare lavoro in altri paesi. Riferisce di ben 100mila giovani italiani che ogni anno emigrano per cercare lavoro.

Molte dittature sono nate da teorie populiste, ma di rado esse sono riuscite ad andare al potere, in prevalenza in paesi dell’America Latina.

Oggi la corrente populista che sta prendendo piede in Europa – ci dice l’autore – è differente; non c’è più una caratterizzazione destra/sinistra, ma si è andati oltre, fino a riscontrare una diminuzione delle partecipazioni elettorali, con l’astensionismo, ma anche con un minore esercizio del diritto di voto.

L’ultimo paragrafo, dopo la sua analisi, è dedicato ad una sua proposta “fattibile” applicabile per l’oggi.
Tito Boeri (Foto tratta da RaiNews24  dell’11 luglio 2017)


Boeri si sofferma brevemente sulle motivazioni che hanno permesso ai populismi di riemergere e di prendere il potere o, perlomeno, il monopolio dell’opposizione: una latente tensione tra domanda e offerta di protezione sociale.

Il paradosso è che l’Unione Europea non ha tolto sovranità nazionale in materia di welfare ai singoli stati, proponendo una unica “Europa sociale”, ma tante distinte, per singolo stato, pur dando “diktat” a ciascuno per evitare o limitari sforamento di bilancio in materia di Stato sociale.

C’è una seconda minaccia, più indiretta, che analizza: la relazione tra stato sociale e immigrazione. Questi ultimi sono il perfetto capro espiatorio per giustificare l’inefficienza dello stato sociale. Ma, i dati mostrano il contrario: infatti dei cinque miliardi che gli stranieri versano in contributi, annualmente, ne ricevono in compenso solo tre., tra pensioni e prestazioni sociali.

Più difficile, invece il calcolo per quanto riguarda le prestazioni sanitarie e l’istruzione nel campo del dare/avere: sicuramente, essendo in maggioranza giovani, beneficeranno di più dell’istruzione e meno dell’assistenza sanitaria.

Vi è spazio anche per spiegare la diversità di situazione tra immigrato per motivi lavorativi, e migrante con lo status di “rifugiato”, in quanto anche la normativa di riferimento prevede accorgimenti, diritti e doveri diversi.

Ritornando a parlare del rischio del populismo, spiega che, oltre a dare risposte sbagliate a problemi da cui prende forza, ha anche la pretesa di sostenere che la soluzione di tutto possa venire semplicemente sostituendo i politici corrotti con rappresentanti del popolo, senza alcuna esperienza di governo, gente definita “come noi”.

L’autore prosegue nel suo ragionamento ed offre alcune soluzioni per uscire dall’empasse dovuto all’avanzata dei populismi, fino ad arrivare ad una sua proposta, definita “modesta, ma fattibile”: intervenendo per via amministrativa, con proposte concrete in modo che si arrivi ad una soluzione comunitaria per i problemi del lavoro, per l’accoglienza e l’inserimento degli immigrati che si affacciano nei nostri paesi, perché divengano ben presto una risorsa per lo stato sociale che contribuiranno a sostenere, dopo averne ricevuto i benefici.
Come anche l’ipotesi di creare un unico codice identificativo contributivo che segua negli spostamenti i lavoratori da un paese all’altro (ESSIN), che permetterebbe la portabilità dei diritti sociali tra diversi paesi e il monitoraggio dei flussi migratori nell’Unione Europea.

Nella spiegazione del funzionamento di questa semplice, quanto rivoluzionaria proposta si chiude il lavoro dell’autore.


Un lavoro che fuga diversi luoghi comuni sull’immigrazione e sui problemi del lavoro che i giovani europei, e non solo, vanno cercando.

Germano Baldazzi
 Roma, 04 agosto 2017

venerdì 16 giugno 2017

TENEREZZA



La rivoluzione del potere gentile

Di Isabella Guanzini


Edizione del 2017

Edizioni Ponte alle Grazie  (192pp.)

L’ispirazione di questo volume viene in buona parte dal pontificato di Papa Francesco, dalle sue parole e dai suoi gesti, così carichi di senso, tanto da ispirare l’autrice nella stesura di un volume che ha per titolo un’espressione densa di significati e, nel sottotitolo, un’antitesi, cioè: “Rivoluzione”, e “Gentile”.

L’autrice, teologa e docente di Storia della Filosofia, analizza il ruolo della tenerezza nella società attuale, infarcendo il testo di diverse citazioni e richiami ad opere famose.

La tenerezza salverà il mondo”, parafrasando una nota espressione, è l’assioma che l’autrice fa sua, man mano che si prosegue nella lettura del testo.

In un mondo in cui i tempi sono regolati da pc, smartphone, mail followers, like, la tenerezza sembra essere ormai del tutto inadeguata allo spirito di oggi.
La vita metropolitana quotidiana sembra non avere più bisogno o tempo per gesti di tenerezza, anzi, lo sviluppo di una cultura pressoché monetaria sembra aver soppiantato anche i legami sociali.

L’autrice nel percorrere i diversi tempi storici, passa dal parlare della insensibilità verso chi era sopravvissuto al dramma di Auschwitz e dello sterminio, trattando i reduci con una freddezza tale che potesse far distaccare la gente dall’orrore; per arrivare a parlare dell’“Ipertrofia dell’Io” di oggi, come malattia mentale dell’uomo della nostra epoca.

Isabella Guanzini afferma che accettando gli echi di un modo di vivere con “tenerezza”, si possa giungere ad vita rivoluzionata. Cioè, vivere provando tenerezza verso la vita affidata, o donata, o anche piovutaci addosso!

Sono molto belli i “Ritratti di tenerezza” che l’autrice descrive.

Inizia con il ritratto della tenerezza di un figlio verso il padre.
Incontriamo brevemente la narrazione della fuga di Enea da Troia, ma salvando da sicura morte l’anziano padre, caricandolo sulle sue spalle. E qui, l’autrice nota come nella fuga siano unite le tre generazioni: con Enea, infatti, ci sono il padre Anchise, ma anche il figlio Ascanio. Si salveranno tutti insieme. Enea usa la tenerezza, sia per salvare il padre che il figlio; loro sono l’unica speranza di un futuro diverso dalle rovine che stanno lasciando.

La tenerezza è anche profumata: come nel gesto - che l’evangelista Giovanni narra nel suo Vangelo - di Maria Maddalena verso Gesù, di lavargli e profumargli i piedi, prima della sua Crocefissione.
Qui, la tenerezza passa da quella di un figlio verso il padre, a quella di una donna verso un Maestro.

La tenerezza può essere anche quella di un medico che, nel suo lavoro, possa vedere nella tragedia della morte di tanti migranti, anche la tenerezza di una donna che dà alla luce un bimbo, anche se in condizioni tanto dolorose o drammatiche.
É «la tenerezza che rompe la “bolla di sapone” dell’indifferenza globale che ci rende insensibili alle grida degli altri”», utilizzando in modo molto incisivo le parole di Papa Francesco pronunciate in occasione della sua visita a Lampedusa.

L’autrice ricorda, tra le altre, queste parole e scrive che la tenerezza corrisponde anche alla “ritrovata capacità di piangere insieme dell’altro e, al contempo, fa nascere contro ogni speranza, in mezzo ai barconi o ai relitti”.
Qui, solo gesti di tenerezza potranno almeno in parte restituire quanto si è perso nel corso di una vita, chiosa l’autrice.

In conclusione, la tenerezza è necessaria, perché - nella sua caducità - non mira al dominio, ma preserva la vita nella sua debolezza e con la sua delicatezza. Di conseguenza, la tenerezza è impagabile.

16 giugno 2017

Germano Baldazzi



venerdì 19 maggio 2017

PACE IN NOME DI DIO

Lo spirito di Assisi tra storia e profezia (1986-2016)


Di Paolo Fucili


ταυ editrice, 2016 (97 pp,)

L’autore, giornalista professionista e vaticanista accreditato presso la Sala Stampa della Santa Sede, inizia il suo lavoro narrando i “prodromi” del pensiero di Papa Giovanni Paolo II sulla pace.

Al secondo capitolo si arriva già al nocciolo:
Correva l’anno (della pace) 1986”.

E’ la narrazione di un cammino, che poi diverrà persino pellegrinaggio tra diverse città e paesi e l’autore entra nel merito dei diversi incontri, soffermandosi in alcuni dei passi più significativi.

Il 1986, fu teatro di un evento eccezionale, quanto straordinario: l’invito di Papa Giovanni Paolo II a tutti gli esponenti delle religioni del mondo: quelle “abramitiche”, come quelle asiatiche, tutte nell’ottica di digiunare e pregare per la pace nel mondo, ancora troppo funestato da guerre.
Un invito a niente altro che fermarsi a meditare e a pregare per la pace.

Il pontificato di Wojtyla è stato lungo, quasi 27 anni, nei quali, questo pontefice, “visionario” e “profetico” (i virgolettati sono dell’autore), ha saputo realizzare forse il più grande evento religioso del Novecento dopo il Concilio Vaticano II. Inoltre, perché ha saputo leggere, tra le righe della cronaca, la corrente sotterranea che la Storia stava scrivendo, con eventi che cambieranno, di lì a poco, la vita di tantissimi paesi, ponendo fine ad un sistema mondiale bloccato dalla Guerra Fredda.

La Ostpolitik - caldeggiata da una parte della Curia, ma in cui Papa Giovanni Paolo II non confidava, perché lui voleva la caduta del comunismo - aveva la massima aspirazione di salvare il salvabile. Ma, Wojtyla vide oltre: la sua fede e la sua tenacia lo portarono a preparare quella che poi sarà la spallata finale per la caduta dei regimi.

L'autore racconta come la profezia di Papa Wojtyla sia stata raccolta e condivisa da tantissimi religiosi e non solo, ma, all’inizio, nel 1986 forse solo lui ci credeva. Anzi, oltre a vivere in un sistema bloccato, il mondo sembrava veramente ad un passo dal baratro, per via delle innumerevoli armi nucleari armate e puntate dai due blocchi.

In questo scenario, anche le religioni parevano paralizzate, come impossibilitate a fare pace o ad essere costruttrici di pace.
Wojtyla seppe ridare alle religioni, nota l’autore, la speranza di poter fare qualcosa in un mondo politicamente immobile, cioè quello che dovrebbero saper fare meglio: pregare, impegnarsi perun’insistente e fervorosa preghiera”.
I rappresentanti delle diverse religioni 


Pregare e digiunare in semplicità, non tutti insieme in un inutile sincretismo, ma

gli uni accanto agli altri e non più gli uno contro gli altri”.

Il luogo scelto dal Papa era fortemente simbolico, ben accetto anche alle altre religioni: la cittadella di San Francesco d‘Assisi.


Assisi 1986 piazza San Francesco
L’autore si sofferma in maniera approfondita, sia nel racconto, che nell’organizzazione di quella storica giornata, cogliendone elementi centrali, per poi proseguire nella narrazione dei successivi incontri, perché l’Evento di Assisi non rimase un appuntamento unico.
Fu, invece, l’inizio di un cammino, di un pellegrinaggio di pace, che si è ripetuto ogni anno, per 30 anni, con fedeltà. E i frutti, inattesi o inaspettati, nel dialogo, incontro, scoperte, furono vari.

In tanti si sono uniti al cammino, qualcuno ha anche cambiato opinione sull'utilità di un simile incontro. È questo il caso del Card. Joseph Ratzinger che, da cardinale, era preoccupato dai rischi di sincretismo o di equivoci che potevano emergere, ma, Papa Benedetto XVI seppe comprendere la forza e la lungimiranza di quel convenire delle religioni, recandosi anche lui in pellegrinaggio alla Preghiera che si svolse a Napoli.

Verso la fine del suo lavoro, l’autore, parla di

una storia parallela a quella dei papi, degna di speciale menzione”:

fa riferimento alla Comunità di Sant’Egidio, al suo fondatore Andrea Riccardi. Egli pensò che l’evento di Assisi non dovesse rimanere unico, come se fosse una bella foto da incorniciare; bensì un cammino da proseguire, fedelmente. E questo “convenire”, che ha creato una vera rete di preghiera, unita anche a rapporti fraterni, di amicizia, di incontri fedeli per ascoltarsi, ha dato un enorme valore.

Nel volume c'è anche il contributo di Marco Impagliazzo, Presidente della Comunità di Sant’Egidio, che racconta il ruolo e il cammino che la Comunità ha compiuto negli anni, perché la profezia, i risultati, i frutti dello spirito di Assisi non andassero perduti.

Il libro si conclude con un episodio di cronaca recente: il cammino era iniziato dall’ormai storico evento di aver riunito, per la prima volta, tutti i capi religiosi ad Assisi per pregare per la pace, e termina con la cronaca quotidiana dell’ultimo atto: la partecipazione di Papa Francesco al Trentennale degli Incontri Internazionali di Preghiera per la Pace, ancora una volta, ad Assisi.

Uno dei pregi di questo volume è che non vuole essere una sorta di diario dei vari appuntamenti, ma si tratta di un testo fedele agli eventi che narra; in cui l’autore ha saputo cogliere con acume la profetica intuizione di Giovanni Paolo II. 
Papa Francesco interviene alla 30 della Preghiera di Assisi 1986

Molto profondo anche il contributo portato dall’improvvisa, imprevista partecipazione di Papa Francesco.

Scelta, quella di Papa Francesco di andare ad Assisi, ad ulteriore conferma che, il primo incontro di 30 anni prima, non era stato

un fatto isolato… una santa stravaganza del Papa…”,

scrive l’autore citando un ricordo di Andrea Riccardi, bensì una cronaca che si è fatta storia e che non ha ancora terminato il suo cammino.


18 maggio 2017
Germano Baldazzi



giovedì 27 ottobre 2016

SORELLA MORTE


SORELLA MORTE

La dignità del vivere e del morire

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Edizioni PIEMME
Ed. 2016 (276pp.)

Il libro di Mons. Vincenzo Paglia – arcivescovo e attualmente Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, uomo di profonda cultura, autore di decine di saggi di carattere religioso e sociale – ha il coraggio di affrontare in maniera esplicita un problema della nostra quotidianità, del nostro futuro, di quello che abbiamo accanto, una cosa di cui non si può tanto parlare: la morte.
Sia il titolo, che la copertina, richiamano alla mente un’immagine francescana, un’ispirazione che guida la stesura del volume.
L’intento è di avvicinarsi e di capire meglio questo mistero che riguarda la vita.
Nelle sue parole troviamo una profondità di riflessione sul tema della morte, ma anche sulla vita che si conduce prima del momento ultimo, con spunti anche sorprendenti.

Le diverse citazioni con cui l’autore infarcisce il testo arricchiscono e permettono di scendere in profondità: sono tanti frammenti culturali, oltreché religiosi, che messi insieme, descrivono i tanti aspetti, anche drammatici, nella vita di una persona.
Per citare un caso, Paglia non nasconde il problema dell’incremento drammatico dei suicidi, anche tra i molto giovani, spesso a causa della mancanza di speranza nel futuro…
C’è una pesante cultura di morte che va sostituita con quella che Mons. Vincenzo Paglia chiama «Cultura dell’accompagnamento».
Il filo conduttore che guida la stesura del volume è nella dignità della vita, che per l’autore «Si chiama “noi”».
Nelle parole dell’arcivescovo emerge tutto il patrimonio di esperienza e di vita che ha acquistato condividendo la sua maturazione con la Comunità di Sant’Egidio che, sin dai primi anni si è incontrato con tanti amici, poveri, che di lì a poco avrebbero fatto l’esperienza della morte, come i malati, o gli anziani.
E nota: «Non ci si poteva non interrogare su questo tema».

Mons. Paglia analizza il termine “eutanasia”, il cui significato, oggi, viene falsato perché dal corretto significato “buona morte”, essa diventa “morte accelerata”. «Di questo si parla», chiosa l’arcivescovo.

Il volume si apre citando il volume la “La morte di moderna” di C. H. Wijkmark, un autore svedese, che diversi decenni orsono aveva previsto l’entrata in scena dell’eutanasia in un mondo in preda alla crisi economica, con l’idea assillante, quasi morbosa, di trovare il modo di risparmiare di tagliare spese, convincendo chi era improduttivo a «scegliere di togliersi di torno», per favorire i propri cari.
«A più di trent’anni dalla pubblicazione, un anziano signore belga organizza la festa la sera prima di sottoporsi all’eutanasia», con questa frase l’autore chiude l’introduzione!

Più avanti si chiede se non ci stiamo forse dirigendo «Verso una cultura di morte?»
In effetti, le legalizzazioni e le introduzioni di leggi in merito in alcuni paesi del Nord Europa lasciano intendere proprio questo. In particolare, nel 2002 in Belgio viene approvata proprio una legge sulla depenalizzazione dell’eutanasia.
«La legge stabilisce che il medico venga protetto da qualsiasi procedimento giuridico se segue la procedura prescritta», anche se con dei limiti: si devono riscontrare elementi di sofferenza fisica e psichica durevoli, o stato di coma, ecc.
La convinzione era che con la depenalizzazione essa sarebbe rimasta relegata ad un’eccezione, ad una “estrema ratio” in casi limite. Invece, la pratica si è estesa, perché – ammettono gli studiosi – «una volta ammesso ed introdotto il principio, diviene impossibile impedirne l’allargamento dell’utilizzo».
I precedenti creati in tal modo hanno fatto saltare i freni alla sua applicazione, commenta l’autore. Tanto che la legge si è estesa a comprendere anche i minorenni: anch’essi da qualche tempo possono richiedere l’eutanasia.

In una delle presentazioni del libro, l’autore racconta di una festa organizzata all’Ospedale “Spallanzani” di Roma, con i malati di AIDS, per festeggiare il 31 dicembre, sapendo che probabilmente per molti di loro sarebbe stato l’ultimo capodanno.

«Come credenti non potevano non interrogarsi sulla morte, e sull’accompagnamento negli ultimi momenti». «Allora, la morte non ci è estranea», dice.

E aggiunge:

«Ma la società, spesso, non vuole parlare di questo momento, lo scarta, lo nasconde o lo allontana, e invece si è alzata per proporre l’eutanasia come soluzione. Ecco le ragioni per la stesura di questo volume, vuole essere una contestazione alla cultura dello scarto, così forte, che vorrebbe non scartare le vite improduttive o malate, ma proprio eliminarle. In mezzo al silenzio di parole su questo, bisogna iniziare a parlarne - perché a forza di non parlarne, si diviene muti - perché la morte non è “cattolica”, ma è di tutti.
La morte chiede di essere accompagnata e abbiamo bisogno di parole per capirla.
Anche la fede di oggi chiede nuove parole per capire, anche la Chiesa chiede nuove parole per parlarne. Ausilio per aiutare a far crescere una serie di sentimenti, pensieri, idee che alla fine la circondano e rompono il pungiglione della morte».

Invita anche ad una riflessione profonda su come certe volte usiamo il tempo che ci è dato e i comportamenti che usiamo nei rapporti con gli altri. E prosegue:

«Alla luce della morte le nostre arroganze (…) appaiono del tutto ridicole. Ed è l’umiltà ad essere sollecitata dalla coscienza della debolezza umana».

Poi, nota:

«Dio non ha creato la morte, non ve ne è traccia nella creazione. Infatti, la morte fa paura perché è estranea a Dio, è “contro natura”».

E confermando il concetto della povertà di parole pronunciate sul morire, aggiunge:

«Il mondo, in effetti, ha bisogno di nuove parole per parlare della morte: gli stessi credenti hanno bisogno di nuove parole sulla fede, sulla vita eterna, sul “dopo”. L’intento di questo lavoro è ricevere un ausilio per capire il mistero della morte che, in realtà, è un atto che riguarda la vita, il suo momento estremo, ma pur sempre vita.
Le persone vogliono vivere, anche i malati. Dietro ad ogni persona c’è qualcun altro, che sia moglie, figli o nipoti, fratelli o sorelle, insomma il contesto personale. E la richiesta di eutanasia non tiene conto del contesto, degli altri.
Un genitore che ha un figlio che può vivere 6,7 mesi, quel tempo è una ricchezza e la gente si aggrappa a questo, nell’attesa che la scienza, progredendo, trovi un rimedio per quel male. La speranza per una nuova terapia c’è sempre.
La vita è legata ai rapporti che noi abbiamo, siamo legati agli altri in maniera inscindibile: “Io ho la libertà di decidere per me”!
E gli altri?»

Nella proseguire la lettura si capisce presto che questo libro analizza la vita con la sua dignità ricevuta dalla presenza del prossimo e di una vita impegnata da e per gli altri, infatti:

«È possibile che una persona possa vivere senza gli altri? Dal punto di vista biologico, si, ma da quello umanistico direi di no....
La vita è degna quando stiamo vicini gli uni agli altri. La dignità si chiama “Noi”!
Per cui stare legati agli altri sei mesi in più è un valore enorme. Più si sta con gli altri e meno ci si dispera, si ha più forza. La solitudine è l’inferno, la vita è tenersi per mano».

Proseguendo nel suo ragionamento, porta un esempio semplice, un paragone che spiazza e che induce a riflettere:

«La vita inizia tenendosi per mano, come si tiene in mano il bambino che nasce dalla pancia della mamma. Questo tener per mano che viene dall’inizio deve durare fino alla fine. E non si può dire che l’anziano ha l’arteriosclerosi e non capisce, magari è intubato, perché il bambino, quando è ancora legato con il cordone ombelicale (naturale forma di intubazione!), non capisce, non sa nulla, piange, ma è tenuto per mano e lui lo sente! Lo capirà più tardi, ma lo sente. Così anche alla fine della vita, essere tenuti per mano… noi pensiamo che uno non senta. Ma cosa ne sappiamo!
Allora, l’eutanasia o l’abbandono è il peccato cruciale della nostra società!
Il peccato che riassume l’inferno di oggi è l’abbandono!
Il sentirsi legati gli uni agli altri è il tema della dignità. E il legame che continua in ogni momento, questo può chiamarsi Paradiso!»

In queste poche parole si sente non solo la lontananza dai pensieri e dalle parole dei protagonisti del romanzo citato all’inizio del volume, sull’eliminazione degli improduttivi della società, ma anche l’errore di prospettiva nel non considerare il valore, e la dignità della persona umana anche nello stato terminale o in uno dei momenti più difficili, dove invece di stare vicino e sostenere, si abbandona il debole.

Paglia riflette anche sul legame che da sempre abbiamo con il mese dedicato ai defunti:

«Questo libro vorrebbe essere uno strumento per capire questo mistero che ruota attorno alla morte e aiutare anche gli altri a capirlo. Milioni di persone si recheranno in visita nei cimiteri nel mese di novembre. Non tutti hanno un discorso, saprebbero spiegare il senso di un simile gesto, ma vi andranno.
Se avessero parole sulla morte sarebbero più consapevoli, perché il mistero della morte per noi cristiani è parte centrale della vita. Perché la morte non è più forte della vita, riguarda tutti, ma da Gesù sappiamo che la morte non è la più forte. Per questo la chiamo “sorella”.
Pensare come dirlo e come viverlo. La debolezza è parte della vita dall’inizio alla fine, la medicina della debolezza è la compagnia.
La morte non è la fine, perché per Gesù non è stato così. È stato un momento di passaggio, infatti il tempo della morte di Gesù si chiama Pasqua, e significa “passaggio”.
Noi cristiani non crediamo nell’aldilà, ma noi crediamo nella vita eterna e lo recitiamo nel Credo, cioè affermiamo che la vita non finisce, continua e la morte altro non è che una porta difficile, terribile.
Tuttavia non è la fine.
Allora, con il volume provo a riflettere su tutto e a descrivere i vari momenti di questo passaggio.
La gente ha bisogno di sapere e capire queste cose. La morte è una cesura, ma fino ad un certo punto.
Il passaggio della nascita è drammatico per la mamma e il figlio e il figlio non sa come sarà dopo la vita, analogamente accade il passaggio attraverso la morte.
Ecco perché il passaggio è importante.
Il paradiso e l’inferno non sono solo dopo, ma sono pure prima. Dipende da che vita uno si trova a fare, di quale vita stiamo costruendo ed influirà poi nella vita di domani.
Il tutto è scritto in un linguaggio “non clericale”, in modo che possa essere avvicinato e compreso da tutti.
Non credo ma vado a tutti i funerali: che tristezza. Noi non abbiamo parole, con questo libro vorrei fornire uno strumento di comprensione per chi muore e chi resta.
Stare vicino a chi soffre può aiutare a vivere e a vivere meglio e ad essere confortati anche nei momenti che sembrano i più disperati».

«Il senso è quello di voler togliere il pungiglione alla morte».

Con queste parole l’autore conclude il suo intervento alla presentazione.
Un libro importante, di grande valore, sulla complessità della vita, che porta a leggere la morte essa sia uno dei tanti atti della vita umana.  La lettura ci accompagnerà alla riflessione e alla ponderazione di molti comportamenti, sul senso di essere chiamati ad allargare gli orizzonti della vita personale. E illustra che può esserci un futuro anche per chi è malato o verso il termine dei suoi giorni, non con occhi rassegnati, ma come un tempo donato da sfruttare fino in fondo, ciò che si vive e si compie non è mai senza senso.



Germano Baldazzi
 Roma, 27 ottobre 2016