SORELLA MORTE
La dignità del vivere e del morire
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Edizioni PIEMME
Ed. 2016
(276pp.)
Il libro di
Mons. Vincenzo Paglia – arcivescovo e attualmente Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, uomo di profonda
cultura, autore di decine di saggi di carattere religioso e sociale – ha il coraggio
di affrontare in maniera esplicita un problema della nostra quotidianità, del
nostro futuro, di quello che abbiamo accanto, una cosa di cui non si può tanto
parlare: la morte.
Sia il titolo,
che la copertina, richiamano alla mente un’immagine francescana, un’ispirazione
che guida la stesura del volume.
L’intento è di
avvicinarsi e di capire meglio questo mistero che riguarda la vita.
Nelle sue
parole troviamo una profondità di riflessione sul tema della morte, ma anche
sulla vita che si conduce prima del momento ultimo, con spunti anche sorprendenti.
Le diverse
citazioni con cui l’autore infarcisce il testo arricchiscono e permettono di scendere
in profondità: sono tanti frammenti culturali, oltreché religiosi, che messi
insieme, descrivono i tanti aspetti, anche drammatici, nella vita di una
persona.
Per citare un
caso, Paglia non nasconde il problema dell’incremento drammatico dei suicidi, anche
tra i molto giovani, spesso a causa della mancanza di speranza nel futuro…
C’è una pesante
cultura di morte che va sostituita con quella che Mons. Vincenzo Paglia chiama «Cultura dell’accompagnamento».
Il filo
conduttore che guida la stesura del volume è nella dignità della vita, che per
l’autore «Si chiama “noi”».
Nelle parole
dell’arcivescovo emerge tutto il patrimonio di esperienza e di vita che ha
acquistato condividendo la sua maturazione con la Comunità di Sant’Egidio che, sin
dai primi anni si è incontrato con tanti amici, poveri, che di lì a poco
avrebbero fatto l’esperienza della morte, come i malati, o gli anziani.
E nota: «Non ci
si poteva non interrogare su questo tema».
Mons. Paglia analizza
il termine “eutanasia”, il cui significato, oggi, viene falsato perché dal
corretto significato “buona morte”, essa diventa “morte accelerata”. «Di questo si parla», chiosa l’arcivescovo.
Il volume si
apre citando il volume la “La morte di
moderna” di C. H. Wijkmark, un autore svedese, che diversi decenni orsono
aveva previsto l’entrata in scena dell’eutanasia in un mondo in preda alla
crisi economica, con l’idea assillante, quasi morbosa, di trovare il modo di
risparmiare di tagliare spese, convincendo chi era improduttivo a «scegliere di togliersi di
torno», per favorire i propri cari.
«A più di trent’anni dalla pubblicazione, un anziano signore belga
organizza la festa la sera prima di sottoporsi all’eutanasia», con questa frase l’autore chiude l’introduzione!
Più avanti si
chiede se non ci stiamo forse dirigendo «Verso una cultura di morte?»
In effetti, le legalizzazioni e le
introduzioni di leggi in merito in alcuni paesi del Nord Europa lasciano
intendere proprio questo. In particolare, nel 2002 in Belgio viene approvata proprio
una legge sulla depenalizzazione dell’eutanasia.
«La
legge stabilisce che il medico venga protetto da qualsiasi procedimento giuridico
se segue la procedura prescritta», anche se con dei limiti: si devono
riscontrare elementi di sofferenza fisica e psichica durevoli, o stato di coma,
ecc.
La convinzione era che con la
depenalizzazione essa sarebbe rimasta relegata ad un’eccezione, ad una “estrema
ratio” in casi limite. Invece, la pratica si è estesa, perché – ammettono gli
studiosi – «una volta ammesso ed
introdotto il principio, diviene impossibile impedirne l’allargamento
dell’utilizzo».
I precedenti creati in tal modo hanno fatto
saltare i freni alla sua applicazione, commenta l’autore. Tanto che la legge si
è estesa a comprendere anche i minorenni: anch’essi da qualche tempo possono richiedere
l’eutanasia.
In una delle
presentazioni del libro, l’autore racconta di una festa organizzata all’Ospedale
“Spallanzani” di Roma, con i malati
di AIDS, per festeggiare il 31 dicembre, sapendo che probabilmente per molti di
loro sarebbe stato l’ultimo capodanno.
«Come credenti non potevano non interrogarsi sulla morte, e
sull’accompagnamento negli ultimi momenti». «Allora, la morte non ci è estranea», dice.
E aggiunge:
«Ma la società, spesso, non vuole parlare di questo momento, lo scarta,
lo nasconde o lo allontana, e invece si è alzata per proporre l’eutanasia come soluzione.
Ecco le ragioni per la stesura di questo volume, vuole essere una contestazione
alla cultura dello scarto, così forte, che vorrebbe non scartare le vite
improduttive o malate, ma proprio eliminarle. In mezzo al silenzio di parole su
questo, bisogna iniziare a parlarne - perché a forza di non parlarne, si
diviene muti - perché la morte non è “cattolica”, ma è di tutti.
La morte chiede di essere accompagnata e abbiamo bisogno
di parole per capirla.
Anche la fede di oggi chiede nuove parole per capire,
anche la Chiesa chiede nuove parole per parlarne. Ausilio per aiutare a far
crescere una serie di sentimenti, pensieri, idee che alla fine la circondano e
rompono il pungiglione della morte».
Invita anche ad
una riflessione profonda su come certe volte usiamo il tempo che ci è dato e i
comportamenti che usiamo nei rapporti con gli altri. E prosegue:
«Alla luce della morte le nostre arroganze (…) appaiono del tutto
ridicole. Ed è l’umiltà ad essere sollecitata dalla coscienza della debolezza
umana».
Poi, nota:
«Dio non ha creato la morte, non ve ne è traccia nella creazione.
Infatti, la morte fa paura perché è estranea a Dio, è “contro natura”».
E confermando il concetto della povertà di
parole pronunciate sul morire, aggiunge:
«Il
mondo, in effetti, ha bisogno di nuove parole per parlare della morte: gli
stessi credenti hanno bisogno di nuove parole sulla fede, sulla vita eterna,
sul “dopo”. L’intento di questo lavoro è ricevere un ausilio per capire il
mistero della morte che, in realtà, è un atto che riguarda la vita, il suo momento
estremo, ma pur sempre vita.
Le
persone vogliono vivere, anche i malati. Dietro ad ogni persona c’è qualcun
altro, che sia moglie, figli o nipoti, fratelli o sorelle, insomma il contesto
personale. E la richiesta di eutanasia non tiene conto del contesto, degli
altri.
Un
genitore che ha un figlio che può vivere 6,7 mesi, quel tempo è una ricchezza e
la gente si aggrappa a questo, nell’attesa che la scienza, progredendo, trovi
un rimedio per quel male. La speranza per una nuova terapia c’è sempre.
La vita è legata ai rapporti che noi abbiamo, siamo
legati agli altri in maniera inscindibile: “Io ho la libertà di decidere per me”!
E gli altri?»
Nella
proseguire la lettura si capisce presto che questo libro analizza la vita con
la sua dignità ricevuta dalla presenza del prossimo e di una vita impegnata da
e per gli altri, infatti:
«È possibile che una persona
possa vivere senza gli altri? Dal punto di vista biologico, si, ma da quello
umanistico direi di no....
La vita è degna quando stiamo vicini gli uni agli altri.
La dignità si chiama “Noi”!
Per cui stare legati agli altri sei mesi in più è un
valore enorme. Più si sta con gli altri e meno ci si dispera, si ha più forza.
La solitudine è l’inferno, la vita è tenersi per mano».
Proseguendo nel suo ragionamento, porta un esempio semplice, un paragone che
spiazza e che induce a riflettere:
«La vita inizia tenendosi
per mano, come si tiene in mano il bambino che nasce dalla pancia della mamma. Questo
tener per mano che viene dall’inizio deve durare fino alla fine. E non si può
dire che l’anziano ha l’arteriosclerosi e non capisce, magari è intubato,
perché il bambino, quando è ancora legato con il cordone ombelicale (naturale
forma di intubazione!), non capisce, non sa nulla, piange, ma è tenuto per mano
e lui lo sente! Lo capirà più tardi, ma lo sente. Così anche alla fine della
vita, essere tenuti per mano… noi pensiamo che uno non senta. Ma cosa ne sappiamo!
Allora, l’eutanasia o l’abbandono è il peccato cruciale
della nostra società!
Il peccato che riassume l’inferno di oggi è l’abbandono!
Il sentirsi legati gli uni agli altri è il tema della
dignità. E il legame che continua in ogni momento, questo può chiamarsi
Paradiso!»
In queste poche
parole si sente non solo la lontananza dai pensieri e dalle parole dei
protagonisti del romanzo citato all’inizio del volume, sull’eliminazione degli
improduttivi della società, ma anche l’errore di prospettiva nel non considerare
il valore, e la dignità della persona umana anche nello stato terminale o in
uno dei momenti più difficili, dove invece di stare vicino e sostenere, si
abbandona il debole.
Paglia riflette
anche sul legame che da sempre abbiamo con il mese dedicato ai defunti:
«Questo libro vorrebbe essere uno strumento per capire questo mistero che
ruota attorno alla morte e aiutare anche gli altri a capirlo. Milioni di
persone si recheranno in visita nei cimiteri nel mese di novembre. Non tutti
hanno un discorso, saprebbero spiegare il senso di un simile gesto, ma vi
andranno.
Se avessero parole sulla morte sarebbero più consapevoli,
perché il mistero della morte per noi cristiani è parte centrale della vita. Perché
la morte non è più forte della vita, riguarda tutti, ma da Gesù sappiamo che la
morte non è la più forte. Per questo la chiamo “sorella”.
Pensare come dirlo e come viverlo. La debolezza è parte
della vita dall’inizio alla fine, la medicina della debolezza è la compagnia.
La morte non è la fine, perché per Gesù non è stato così.
È stato un momento di passaggio, infatti il tempo della
morte di Gesù si chiama Pasqua, e significa “passaggio”.
Noi cristiani non crediamo nell’aldilà, ma noi crediamo
nella vita eterna e lo recitiamo nel Credo, cioè affermiamo che la vita non finisce,
continua e la morte altro non è che una porta difficile, terribile.
Tuttavia non è la fine.
Allora, con il volume provo a riflettere su tutto e a descrivere
i vari momenti di questo passaggio.
La gente ha bisogno di sapere e capire queste cose. La
morte è una cesura, ma fino ad un certo punto.
Il passaggio della nascita è drammatico per la mamma e il
figlio e il figlio non sa come sarà dopo la vita, analogamente accade il
passaggio attraverso la morte.
Ecco perché il passaggio è importante.
Il paradiso e l’inferno non sono solo dopo, ma sono pure
prima. Dipende da che vita uno si trova a fare, di quale vita stiamo costruendo
ed influirà poi nella vita di domani.
Il tutto è scritto in un linguaggio “non clericale”, in
modo che possa essere avvicinato e compreso da tutti.
Non credo ma vado a tutti i funerali: che tristezza. Noi
non abbiamo parole, con questo libro vorrei fornire uno strumento di comprensione
per chi muore e chi resta.
Stare vicino a chi soffre può aiutare a vivere e a vivere
meglio e ad essere confortati anche nei momenti che sembrano i più disperati».
«Il senso è quello di voler togliere il pungiglione alla morte».
Con queste
parole l’autore conclude il suo intervento alla presentazione.
Un libro
importante, di grande valore, sulla complessità della vita, che porta a leggere la morte essa sia uno dei tanti atti della vita umana. La lettura ci accompagnerà alla riflessione e
alla ponderazione di molti comportamenti, sul senso di essere chiamati ad allargare
gli orizzonti della vita personale. E illustra che può esserci un futuro anche per chi è malato o
verso il termine dei suoi giorni, non con occhi rassegnati, ma come un tempo
donato da sfruttare fino in fondo, ciò che si vive e si compie non è mai senza
senso.
Roma, 27 ottobre 2016