Viva gli Anziani!

Viva gli Anziani!
Scopri i contenuti del programma "Viva Gli Anziani!" e le attività

giovedì 27 ottobre 2016

SORELLA MORTE


SORELLA MORTE

La dignità del vivere e del morire

******


Edizioni PIEMME
Ed. 2016 (276pp.)

Il libro di Mons. Vincenzo Paglia – arcivescovo e attualmente Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, uomo di profonda cultura, autore di decine di saggi di carattere religioso e sociale – ha il coraggio di affrontare in maniera esplicita un problema della nostra quotidianità, del nostro futuro, di quello che abbiamo accanto, una cosa di cui non si può tanto parlare: la morte.
Sia il titolo, che la copertina, richiamano alla mente un’immagine francescana, un’ispirazione che guida la stesura del volume.
L’intento è di avvicinarsi e di capire meglio questo mistero che riguarda la vita.
Nelle sue parole troviamo una profondità di riflessione sul tema della morte, ma anche sulla vita che si conduce prima del momento ultimo, con spunti anche sorprendenti.

Le diverse citazioni con cui l’autore infarcisce il testo arricchiscono e permettono di scendere in profondità: sono tanti frammenti culturali, oltreché religiosi, che messi insieme, descrivono i tanti aspetti, anche drammatici, nella vita di una persona.
Per citare un caso, Paglia non nasconde il problema dell’incremento drammatico dei suicidi, anche tra i molto giovani, spesso a causa della mancanza di speranza nel futuro…
C’è una pesante cultura di morte che va sostituita con quella che Mons. Vincenzo Paglia chiama «Cultura dell’accompagnamento».
Il filo conduttore che guida la stesura del volume è nella dignità della vita, che per l’autore «Si chiama “noi”».
Nelle parole dell’arcivescovo emerge tutto il patrimonio di esperienza e di vita che ha acquistato condividendo la sua maturazione con la Comunità di Sant’Egidio che, sin dai primi anni si è incontrato con tanti amici, poveri, che di lì a poco avrebbero fatto l’esperienza della morte, come i malati, o gli anziani.
E nota: «Non ci si poteva non interrogare su questo tema».

Mons. Paglia analizza il termine “eutanasia”, il cui significato, oggi, viene falsato perché dal corretto significato “buona morte”, essa diventa “morte accelerata”. «Di questo si parla», chiosa l’arcivescovo.

Il volume si apre citando il volume la “La morte di moderna” di C. H. Wijkmark, un autore svedese, che diversi decenni orsono aveva previsto l’entrata in scena dell’eutanasia in un mondo in preda alla crisi economica, con l’idea assillante, quasi morbosa, di trovare il modo di risparmiare di tagliare spese, convincendo chi era improduttivo a «scegliere di togliersi di torno», per favorire i propri cari.
«A più di trent’anni dalla pubblicazione, un anziano signore belga organizza la festa la sera prima di sottoporsi all’eutanasia», con questa frase l’autore chiude l’introduzione!

Più avanti si chiede se non ci stiamo forse dirigendo «Verso una cultura di morte?»
In effetti, le legalizzazioni e le introduzioni di leggi in merito in alcuni paesi del Nord Europa lasciano intendere proprio questo. In particolare, nel 2002 in Belgio viene approvata proprio una legge sulla depenalizzazione dell’eutanasia.
«La legge stabilisce che il medico venga protetto da qualsiasi procedimento giuridico se segue la procedura prescritta», anche se con dei limiti: si devono riscontrare elementi di sofferenza fisica e psichica durevoli, o stato di coma, ecc.
La convinzione era che con la depenalizzazione essa sarebbe rimasta relegata ad un’eccezione, ad una “estrema ratio” in casi limite. Invece, la pratica si è estesa, perché – ammettono gli studiosi – «una volta ammesso ed introdotto il principio, diviene impossibile impedirne l’allargamento dell’utilizzo».
I precedenti creati in tal modo hanno fatto saltare i freni alla sua applicazione, commenta l’autore. Tanto che la legge si è estesa a comprendere anche i minorenni: anch’essi da qualche tempo possono richiedere l’eutanasia.

In una delle presentazioni del libro, l’autore racconta di una festa organizzata all’Ospedale “Spallanzani” di Roma, con i malati di AIDS, per festeggiare il 31 dicembre, sapendo che probabilmente per molti di loro sarebbe stato l’ultimo capodanno.

«Come credenti non potevano non interrogarsi sulla morte, e sull’accompagnamento negli ultimi momenti». «Allora, la morte non ci è estranea», dice.

E aggiunge:

«Ma la società, spesso, non vuole parlare di questo momento, lo scarta, lo nasconde o lo allontana, e invece si è alzata per proporre l’eutanasia come soluzione. Ecco le ragioni per la stesura di questo volume, vuole essere una contestazione alla cultura dello scarto, così forte, che vorrebbe non scartare le vite improduttive o malate, ma proprio eliminarle. In mezzo al silenzio di parole su questo, bisogna iniziare a parlarne - perché a forza di non parlarne, si diviene muti - perché la morte non è “cattolica”, ma è di tutti.
La morte chiede di essere accompagnata e abbiamo bisogno di parole per capirla.
Anche la fede di oggi chiede nuove parole per capire, anche la Chiesa chiede nuove parole per parlarne. Ausilio per aiutare a far crescere una serie di sentimenti, pensieri, idee che alla fine la circondano e rompono il pungiglione della morte».

Invita anche ad una riflessione profonda su come certe volte usiamo il tempo che ci è dato e i comportamenti che usiamo nei rapporti con gli altri. E prosegue:

«Alla luce della morte le nostre arroganze (…) appaiono del tutto ridicole. Ed è l’umiltà ad essere sollecitata dalla coscienza della debolezza umana».

Poi, nota:

«Dio non ha creato la morte, non ve ne è traccia nella creazione. Infatti, la morte fa paura perché è estranea a Dio, è “contro natura”».

E confermando il concetto della povertà di parole pronunciate sul morire, aggiunge:

«Il mondo, in effetti, ha bisogno di nuove parole per parlare della morte: gli stessi credenti hanno bisogno di nuove parole sulla fede, sulla vita eterna, sul “dopo”. L’intento di questo lavoro è ricevere un ausilio per capire il mistero della morte che, in realtà, è un atto che riguarda la vita, il suo momento estremo, ma pur sempre vita.
Le persone vogliono vivere, anche i malati. Dietro ad ogni persona c’è qualcun altro, che sia moglie, figli o nipoti, fratelli o sorelle, insomma il contesto personale. E la richiesta di eutanasia non tiene conto del contesto, degli altri.
Un genitore che ha un figlio che può vivere 6,7 mesi, quel tempo è una ricchezza e la gente si aggrappa a questo, nell’attesa che la scienza, progredendo, trovi un rimedio per quel male. La speranza per una nuova terapia c’è sempre.
La vita è legata ai rapporti che noi abbiamo, siamo legati agli altri in maniera inscindibile: “Io ho la libertà di decidere per me”!
E gli altri?»

Nella proseguire la lettura si capisce presto che questo libro analizza la vita con la sua dignità ricevuta dalla presenza del prossimo e di una vita impegnata da e per gli altri, infatti:

«È possibile che una persona possa vivere senza gli altri? Dal punto di vista biologico, si, ma da quello umanistico direi di no....
La vita è degna quando stiamo vicini gli uni agli altri. La dignità si chiama “Noi”!
Per cui stare legati agli altri sei mesi in più è un valore enorme. Più si sta con gli altri e meno ci si dispera, si ha più forza. La solitudine è l’inferno, la vita è tenersi per mano».

Proseguendo nel suo ragionamento, porta un esempio semplice, un paragone che spiazza e che induce a riflettere:

«La vita inizia tenendosi per mano, come si tiene in mano il bambino che nasce dalla pancia della mamma. Questo tener per mano che viene dall’inizio deve durare fino alla fine. E non si può dire che l’anziano ha l’arteriosclerosi e non capisce, magari è intubato, perché il bambino, quando è ancora legato con il cordone ombelicale (naturale forma di intubazione!), non capisce, non sa nulla, piange, ma è tenuto per mano e lui lo sente! Lo capirà più tardi, ma lo sente. Così anche alla fine della vita, essere tenuti per mano… noi pensiamo che uno non senta. Ma cosa ne sappiamo!
Allora, l’eutanasia o l’abbandono è il peccato cruciale della nostra società!
Il peccato che riassume l’inferno di oggi è l’abbandono!
Il sentirsi legati gli uni agli altri è il tema della dignità. E il legame che continua in ogni momento, questo può chiamarsi Paradiso!»

In queste poche parole si sente non solo la lontananza dai pensieri e dalle parole dei protagonisti del romanzo citato all’inizio del volume, sull’eliminazione degli improduttivi della società, ma anche l’errore di prospettiva nel non considerare il valore, e la dignità della persona umana anche nello stato terminale o in uno dei momenti più difficili, dove invece di stare vicino e sostenere, si abbandona il debole.

Paglia riflette anche sul legame che da sempre abbiamo con il mese dedicato ai defunti:

«Questo libro vorrebbe essere uno strumento per capire questo mistero che ruota attorno alla morte e aiutare anche gli altri a capirlo. Milioni di persone si recheranno in visita nei cimiteri nel mese di novembre. Non tutti hanno un discorso, saprebbero spiegare il senso di un simile gesto, ma vi andranno.
Se avessero parole sulla morte sarebbero più consapevoli, perché il mistero della morte per noi cristiani è parte centrale della vita. Perché la morte non è più forte della vita, riguarda tutti, ma da Gesù sappiamo che la morte non è la più forte. Per questo la chiamo “sorella”.
Pensare come dirlo e come viverlo. La debolezza è parte della vita dall’inizio alla fine, la medicina della debolezza è la compagnia.
La morte non è la fine, perché per Gesù non è stato così. È stato un momento di passaggio, infatti il tempo della morte di Gesù si chiama Pasqua, e significa “passaggio”.
Noi cristiani non crediamo nell’aldilà, ma noi crediamo nella vita eterna e lo recitiamo nel Credo, cioè affermiamo che la vita non finisce, continua e la morte altro non è che una porta difficile, terribile.
Tuttavia non è la fine.
Allora, con il volume provo a riflettere su tutto e a descrivere i vari momenti di questo passaggio.
La gente ha bisogno di sapere e capire queste cose. La morte è una cesura, ma fino ad un certo punto.
Il passaggio della nascita è drammatico per la mamma e il figlio e il figlio non sa come sarà dopo la vita, analogamente accade il passaggio attraverso la morte.
Ecco perché il passaggio è importante.
Il paradiso e l’inferno non sono solo dopo, ma sono pure prima. Dipende da che vita uno si trova a fare, di quale vita stiamo costruendo ed influirà poi nella vita di domani.
Il tutto è scritto in un linguaggio “non clericale”, in modo che possa essere avvicinato e compreso da tutti.
Non credo ma vado a tutti i funerali: che tristezza. Noi non abbiamo parole, con questo libro vorrei fornire uno strumento di comprensione per chi muore e chi resta.
Stare vicino a chi soffre può aiutare a vivere e a vivere meglio e ad essere confortati anche nei momenti che sembrano i più disperati».

«Il senso è quello di voler togliere il pungiglione alla morte».

Con queste parole l’autore conclude il suo intervento alla presentazione.
Un libro importante, di grande valore, sulla complessità della vita, che porta a leggere la morte essa sia uno dei tanti atti della vita umana.  La lettura ci accompagnerà alla riflessione e alla ponderazione di molti comportamenti, sul senso di essere chiamati ad allargare gli orizzonti della vita personale. E illustra che può esserci un futuro anche per chi è malato o verso il termine dei suoi giorni, non con occhi rassegnati, ma come un tempo donato da sfruttare fino in fondo, ciò che si vive e si compie non è mai senza senso.



Germano Baldazzi
 Roma, 27 ottobre 2016

martedì 11 ottobre 2016

LA MORTE MODERNA

Di Carl-Henning Wijkmark

Con la Postfazione di Claudio Magris

Edizione del 2008
Ed. Iperborea (120pp.)

Un testo apparso nel 1978, che l’editore ripropone per l’attualità dei temi trattati. Colpisce che il tema dell’eutanasia “la buona morte” viene trattato dall’autore, già nel 1978, nei medesimi termini in cui oggi alcuni paesi europei hanno legittimato la discussione e legalizzato il suo esercizio.
Wijkmark colloca il suo racconto in Svezia: il paese vive una drammatica crisi demografica ed economica; gli anziani da assistere e a cui pagare le pensioni sono tantissimi.

Il volume si apre con l’apertura del convegno che vuole ragionare sul progetto “USTAU” (Ultimo Stadio della vita Umana). Il convegno si svolge a porte chiuse, i partecipanti sono scelti accuratamente, appartengono ai campi della scienza, economia, medicina e religione.
L’argo
mento del convegno è top secret: i partecipanti saranno chiamati a ragionare e a decidere delle sorti di malati, handicappati, anziani; insomma, di coloro che ormai sono gli “improduttivi” della società, in una visione di massa (e non dal punto di vista umano!).
Nonostante l’autore fa riconoscere ai convegnisti che “Morire è considerato innaturale”, afferma anche che ci sono troppi anziani e pochi bambini, ergo la popolazione attiva è infinitamente inferiore a quella inattiva, composta da pensionati e non autosufficienti. In più, essendo reduci ormai da anni di spot sulla necessità di vivere facendo sport, fitness, oggi i vecchi erano persone in gamba e in salute, con aspettativa di vita oltre gli ottant’anni.
La società, in conseguenza di questa realtà, paga in termini di disoccupazione, di spese per il welfare, e soffre per una tassazione alle stelle.
Nel convegno si discute e si riflette su una soluzione da proporre e praticare.
L’incipit del ragionamento potrebbe filare, in un contesto razionale, ma decisamente inumano:
Tutti noi nasciamo alla stessa età, perché non dovremmo anche morire alla stessa età?

Così, a turno, gli esperti prendono la parola animati dall’idea di uscire da un'impasse dovuta ad ideali e valori quali “sacralità”, “assoluto”, “intangibilità”, che sono ormai antiche parole e, come tali, retaggi del passato, non più adatti a fare i conti “economici” con l’oggi.

«Ciò che si vuole è produzione, non civiltà. Cose, non esseri umani», dice uno dei partecipanti al simposio.

In effetti, si osserva, si è riusciti a far accettare la pianificazione delle nascite attraverso l’aborto, cosa potrebbe fermare una pianificazione dei decessi? L’unico scoglio è nel far passare con i dovuti termini l’idea della morte moderna.

Insomma, si arriva a discutere su come introdurre una eutanasia di stato garbata, ragionevole, talmente naturale che l’anziano o il malato la vedrà su di sé come un obbligo volontario per il bene della società, una volta raggiunta una certa età.
Infatti, si fa avanti la teoria del valore del primato sociale su quello umano: meglio che muoiano pochi vecchi malati, che crolli la società nel suo complesso.

Il titolo della postfazione di Claudio Magris offre uno spunto di riflessione, bilanciando un po’ dando il nome giusto ai termini: “Democrazia della morte – Morte della democrazia”.

Nella sua analisi, Magris afferma che, a voce di una sedicente democrazia, essa esige la libertà del cittadino e deve agire secondo convinzione. La convinzione dei partecipanti al convegno è che bisognerà convincere anziani e malati - costosi per una società così in crisi – a farsi da parte, richiedendo di morire. Infine, l’autore fa notare come con tanta facilità si senta parlare di un’azione fatta con buoni sentimenti verso i malati e sofferenti e di misericordia verso quei genitori che dovrebbero portare il peso di un amore parentale gravato dal senso di colpa per aver fatto nascere un figlio malato.

Un testo duro, che parla e infonde uno scossone anche alla società di oggi con le sue provocazioni, precorrendo i tempi rispetto ai dibattiti e alle leggi introdotte già in alcuni paesi, ma che in parte fa ricordare anche tristi e tragici trascorsi della storia, come gli atti terribili operati dai nazisti, prima e durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale nei confronti dei disabili e dei malati in genere, con l’oppio del miti della razza.

Un testo non semplice da afferrare e discernere, per non cadere in semplificazioni o giudizi semplicistici.


Germano Baldazzi
 Roma, 11 ottobre 2016

lunedì 3 ottobre 2016

LA PAURA DELL’ISLAM

La questione islamica, il conflitto tra generazioni, gli equivoci dello scontro di civiltà

Di Olivier Roy
Conversazioni con Nicolas Truong
Edizione del 2016
RCS (108pp.)


La visione dei fatti di Olivier Roy è singolare, affascinante perché in controtendenza rispetto alle interpretazioni epocali in questo momento prevalenti. Una voce che vale la pena di essere ascoltata. (Dalla prefazione di Stefano Montefiori)



«Non c’è nessuna comunità musulmana, ma c’è una popolazione musulmana. Accettare questa semplice constatazione sarebbe già un buon risultato contro l’isteria presente e futura».


Siamo dinanzi ad un testo snello e molto ben scritto che aiuta a comprendere le categorie per entrare in una realtà complessa, molto diversificata, molto più di quello che i media comunicano nelle semplificazioni quotidiane.
Sono gli interventi pubblicati da Olivier Roy su Le Monde dall’11 settembre 2001, al 24 novembre 2015.
L’autore, a detta di molti studiosi, è il più grande esperto e conoscitore vivente dei rapporti tra Islam e Occidente.

Egli contesta le due visioni prevalenti dell’Islam; una che vorrebbe l’Occidente in parte responsabile del terrorismo, e l’altra che l’Islam sarebbe fomentatore e fornitore della base della Jihad (la guerra santa).
La sua lettura non verte sulla periferia, lui crede che il problema non venga dalla vita che si svolge nelle banlieue di Parigi, per fare un esempio.
Lui pensa ai convertiti, cittadini benestanti non cresciuti tra le discriminazioni anti-islamiche, perché non si erano ancora convertiti all’epoca dei fatti. Non hanno, quindi, nemmeno subito atti discriminatori.

In effetti, la tesi dello studioso è che i prodromi dei futuri islamisti radicali vadano ricercati nel nichilismo che ha ispirato alcuni giovani; e il conflitto generazionale con i “vecchi” della famiglia. Stiamo assistendo - e non è un gioco di parole - non alla radicalizzazione dell’Islam, ma all’islamizzazione del radicalismo.

Il governo francese, nei suoi interventi armati in Medio Oriente e Africa non è responsabile della risposta terroristica nel suo paese, ma ha invece responsabilità nello spingere ad una laicità come religione di Stato, per contrastare l’avanzata dell’Islam. Ma, così facendo, viene meno al valore di Laicité della République.

Nei suoi diversi interventi, l’autore prima rileva come i genitori musulmani dei giovani radicalizzati francesi non comprendano la scelta dei loro figli, e cerchino di opporsi al loro passo di radicalizzazione: così, o li vanno a riprendere, o li denunciano alla polizia.
Il risultato che i giovani jihadisti ottengono è quello di aprire un contrasto generazionale nelle famiglie; famiglie che non hanno nemmeno un passato di pratica religiosa, anzi, sono ai margini delle comunità musulmane.
Roy ci spiega che in questi giovani avviene una sorta di “rinascita” e dichiarano il loro nuovo credo, con un nuovo “io”  e una voglia di rivincita, con un fascino per la morte.
Pochi di loro hanno frequentato le moschee: tra quelli che vanno in Siria nessuno si integra, né si interessa alla società civile; nessuno ha frequentato i Fratelli musulmani, nessuno ha militato in movimenti politici.
Si radicalizzano attorno ad un piccolo gruppo di compagni, ricreando una sorta di famiglia.

Roy nota come i terroristi non siano l’espressione di una radicalizzazione, ma più il riflesso di una rivolta generazionale.

In un altro intervento, osserva come i soldati musulmani di nazionalità francese siano leali nei confronti della Repubblica francese, partendo per andare a combattere dove viene loro chiesto, anche contro altri musulmani e sono molti i caduti in guerra.
Secondo lo studioso è in funzione un “laboratorio di integrazione”, nonostante le cronache spicciole permettano che il “jihadismo” vada in prima pagina e gli episodi di integrazione, invece, finiscano nella cronaca locale, o in trafiletti minori.

  Germano Baldazzi

     03 ottobre 2016

martedì 27 settembre 2016

LA PACE DI ASSISI


27 ottobre 1986
Il dialogo tra le religioni trent’anni dopo

Di Riccardo Burigana

Pref. di Andrea Riccardi

Edizione del 2016
Edizioni Terra Santa (140pp.)


L’autore inizia il suo lavoro citando le parole pronunciate da Papa Francesco nel corso dell’udienza per il 50° anniversario della Dichiarazione Nostra Aetate, uno dei frutti più maturi dei lavori del Concilio Vaticano II. La Dichiarazione tratta dei rapporti tra religiosi cristiani e credenti in altre fedi. Papa Francesco ha ricordato come l’incontro di preghiera tra le religioni, voluto e realizzato da San Giovanni Paolo II il 27 ottobre del 1986, sia stato l’evento che abbia permesso di aprire una nuova stagione di dialogo, comprensione e collaborazione tra le religioni. Quella giornata di preghiera e digiuno, tutti insieme diede una svolta netta, in quanto aprì le religioni al nuovo orizzonte del dialogo che porta a costruire insieme la pace, mantenendo le proprie identità.

Nella prefazione, Andrea Riccardi, testimone diretto della giornata, cita il discorso di Papa Wojtyla: “La pace attende i suoi profeti”.
Già con questa frase il Papa fa intendere il desiderio di suscitare nuovi compagni di viaggio nel cammino verso la pace tra i popoli: da lì, si inizia a ragionare se dare un seguito, magari, annuale a quel primo grande incontro di preghiera di Assisi del 1986: le resistenze erano diverse, alcuni prelati cattolici pensavano dovesse rimanere come un “unicum”.
La Comunità di Sant’Egidio, con il sostegno di alcuni vescovi raccolse il testimone e gli incontri tra religioni per pregare per la pace sono proseguiti fedelmente ogni anno, in tante fino ad arrivare al 30° anniversario, appena celebrato nuovamente ad Assisi, con la partecipazione di Papa Francesco.

La preghiera del 1986 è stata un momento di svolta per la Chiesa Cattolica come per il mondo delle religioni.

L’autore ci accompagna rivivendo questo cammino durato trent’anni, in cui i lavori e i documenti usciti dal Concilio Vaticano II, hanno permesso la realizzazione di “Assisi 1986.
Nel suo lavoro, Burigana inizia spiegando i prodromi che hanno permesso l’evento di Assisi: il Concilio Vaticano II e i suoi Documenti, la sua recezione, i rapporti di dialogo con le altre religioni.
In particolare, Papa Paolo VI raccogliendo lo spirito del dialogo introdotto nel Concilio, compì alcuni passi fondamentali: creò un “Segretariato per i non cristiani”; promulgò l’enciclica “Ecclesiam suam”; infine compì un viaggio a Bombay, in India, per incontrare la spiritualità orientale, dove parlò dell’importanza di favorire un dialogo tra le fedi.

Il viaggio in India aveva seguito un altro evento storico: l’incontro fraterno a Gerusalemme, nel gennaio 1964, tra Papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora di Costantinopoli. Fu il primo passo nel tentativo di riavvicinare chiese sorelle che per troppi secoli avevano vissuto separate.
I diversi gesti di Paolo VI aprivano una nuova stagione per la Chiesa nel rapporto con gli altri credenti, frutti che matureranno negli anni.

Con Giovanni Paolo II i passi compiuti da Paolo VI matureranno con una velocità inattesa con l’invito ad Assisi
Francesco, il frate poverello di Assisi era un po’ l’icona del dialogo: il suo incontro con il Sultano per dialogare, senza rinunciare alla sua identità erano un simbolo. Così, come Assisi stessa è il luogo alto della fede, ma anche dell’accoglienza, del dialogo e naturalmente della preghiera.

La grande intuizione di San Giovanni Paolo II fu di intervenire con una preghiera fra le religioni, in un periodo storico in cui la politica internazionale era in stallo, a causa della Guerra Fredda in corso tra i due blocchi allora esistenti, il Papa sperava con il suo invito di dare uno scossone ad mondo ingessato, che pensava solo a riarmarsi sperando, così, di mantenere la pace con il bilanciamento delle armi, ma di essere sempre pronta a rispondere in caso di attacco.

Assisi 1986 diede effettivamente una scossa. E il sogno di San Giovanni Paolo II era che si continuasse a vivere lo spirito di pace sprigionato ad Assisi.
Al termine di quella storica giornata, in molti cercarono di dare una risposta, anche traducendo in una realtà quotidiana quanto vissuto in quella giornata: l’autore cita gli Incontri internazionali per la pace promossi dalla Comunità di Sant’Egidio già dal 1987 e proseguiti annualmente in diverse città europee (ma non solo), sempre con il desiderio di mantenere vivo lo “Spirito di Assisi”.

Dall’edizione del 1990 che si tenne a Bari, oltre alla preghiera, si svolgono degli incontri, delle tavole rotonde, momenti assembleari in cui parlare del problemi esistenti invitando esponenti politici, della cultura, uomini di buona volontà, tutti nello spirito di dare il proprio contributo personale alla pace, riaffermando che ogni uomo può essere un uomo di pace e fare la pace, portare pace.
L’azione di Giovanni Paolo II non si esaurì con la preghiera di Assisi: anzi, rappresentò il primo dei suoi grandi contributi per contribuire alla pace nel mondo.

L’autore, proseguendo nella sua analisi, si sofferma all’edizione del 2011, il 25° incontro.
A quell’anniversario così importante volle partecipare anche Ratzinger, ora divenuto Papa Benedetto XVI, che da cardinale non vedeva di buon occhio la prosecuzione di Assisi. Ma, il suo pensiero era maturato e i suoi dubbi si erano sciolti.
La nuova preghiera di Assisi fu una edizione particolare, oltre per la ricorrenza, anche per il coinvolgimento di personalità non legate alle religioni, e per la condanna decisa, senza mezzi termini, del pensiero che vorrebbe le religioni coinvolte con la violenza e con la guerra.

Nel concludere il lavoro, l’autore ci dice quanto dello Spirito di Assisi si possa trovare nel pensiero e nell’opera di Papa Francesco: lui, che da subito si è presentato come uomo di dialogo, di pace e dell’essere insieme nel condannare la violenza. Sono tanti e diversi i gesti di Papa Francesco che propendono per la scelta di lavorare per la pace e la convivenza, di rifiutare della cultura dello scarto, di richiamare ciascuno ad una preghiera costante per la pace in Siria, in Medio Oriente e in tanti altri paesi del mondo, in quanto un uomo di religione può essere solo un cercatore di pace.

Papa Wojtyla ha lasciato una grande eredità con la Preghiera per la Pace, l’eredità è stata raccolta e ha fruttificato con gli altri pontefici.
In un tempo in cui alcuni "profeti" hanno parlato di scontro di civiltà, tanti altri oggi riaffermano che la preghiera e il dialogo hanno una loro forza e, come conclude l’autore: 

Francesco chiede alla religione di essere pellegrina nel mondo e di portare con gioia e speranza, il patrimonio spirituale della propria identità, con la quale costruire ponti in servizio alla pace”.

Gli incontri di preghiera iniziati e ritornati quest'anno ad Assisi hanno permettono di incontrarsi tra differenti, tra uomini che difficilmente si incontrerebbero, e di dialogare, conoscersi e pregare. Premessa alla costruzione di ponti che rendono la vita più bella per tutti.

26 settembre 2016

Germano Baldazzi




martedì 13 settembre 2016

STRANIERI ALLE PORTE

Di Zygmunt Bauman

Edizione del 2016

Ed. Laterza (116pp.)

"Noi siamo un solo pianeta, una sola umanità. Quali che siano gli ostacolo, e quale che sia la loro apparente enormità, la conoscenza reciproca e la fusione di orizzonti rimangono la via maestra per arrivare alla convivenza pacifica e vantaggiosa per tutti, collaborativa e solidale. Non ci sono alternative praticabili. La 'crisi migratoria' ci rivela l'attuale stato del mondo, il destino che abbiamo in comune". (dalla IV di copertina)



L’autore, grande intellettuale e profondo conoscitore della società, dopo aver analizzato sotto diversi aspetti con diversi studi i movimenti nella modernità e nella società contemporanea, con questo nuovo lavoro si appresta a fare il punto sulla questione della migrazione e della reazione della società a questo fenomeno ormai ineludibile. L’incipit è chiaro:

Le migrazioni di massa non sono certo un fenomeno nuovo: hanno accompagnato tutta l’età moderna fin dai suoi albori”.

I fattori che provocano le migrazioni sono essenzialmente due: il mondo dell’impresa nel mondo occidentale desidera e accoglie possibili lavoratori e manodopera a buon mercato, ma, d’altro canto, la popolazione su cui grava una precarietà dovuta ad una persistente crisi economica, risente di una incertezza nella speranza che le cose possano migliorare ed è preoccupata per una maggiore concorrenza sul mondo del lavoro.
Inoltre, allo stato attuale, non ci sono elementi per prevedere un decisivo arresto delle grandi migrazioni, o che vengano meno gli stimoli per chi si vede costretto a lasciare la propria terra.Negli ultimi anni vi è stato un forte aumento di profughi e richiedenti asilo, dovuto al moltiplicarsi di stati - i cui regimi dittatoriali o democratici sono “falliti” o “fatti fallire” - come di territori senza stato e senza legge, con guerre estenuanti e senza fine. E questo sono i danni collaterali delle malaugurate e disastrose campagne di guerra in Afghanistan e in Iraq, che hanno – si - deposto dittatori, ma hanno anche consegnato i paesi all’anarchia e al mercato delle armi senza controllo, nelle mani di mercenari senza scrupoli, talvolta con il sostegno di governi disposti a tutto per far aumentare il PIL.

Oltre a chi fugge dalle guerre e persecuzioni, si aggiungono i cosiddetti migranti economici, cioè, coloro che preferiscono abbandonare tutto, pur di trovare una terra dove poter vivere con dignità.
Nei primi cinquanta anni del XX secolo, i migranti sono stati circa 60 milioni, e dal 2000 al 2010 la tendenza non è certo diminuita. Senza interventi, secondo gli esperti, il numero dei migranti potrebbe aumentare fino a raggiungere un punto di equilibrio in cui livelli di benessere tra i settori “sviluppati” e quelli “in via di sviluppo” del pianeta globalizzato, si allineino. Ma, per arrivare ad un simile risultato occorreranno decenni, con tutti i possibili imprevisti della storia!

I profughi sono sempre “stranieri”, etimologicamente, la parola deriva da “strani” e, come tali, gli strani provocano ansia. La causa di questo processo è dovuta al fatto che sugli stranieri sappiamo troppo poco e non sapere come comportarsi in una situazione, è una delle principali cause dell’ansia e della paura.
Tali sentimenti fanno il gioco, la fortuna della xenofobia e del razzismo: la conseguenza sono i successi elettorali di partiti e movimenti xenofobi, che ricevono voti dalla parte derelitta, impoverita ed esclusa della società, la quale vede nei diversi una causa ulteriore della loro miseria.  

L’autore osserva come, per una sorta di

logica perversa (…), quei nomadi ci ricordano in modo irritante quanto vulnerabili siano la nostra posizione nella società e la fragilità del nostro benessere”.

Il loro involontario messaggio, cioè, che siamo così impotenti davanti ai rovesci della storia, viene alleviato dalla collera che riversiamo nei confronti dei disperati che affollano le coste, collera che allenta per un attimo il senso di impotenza, ma che non risolve, né la loro disperazione, e nemmeno la nostra frustrazione dovuta alla crisi o all’impotenza verso una reazione alla crisi.

Bauman rileva:

Una politica basata sulla reciproca separazione e sul mantenimento delle distanze; una politica che se ne lava le mani, non porta da nessuna parte se non al deserto della sfiducia”.

E ancora:

Queste politiche suicide in realtà accumulano la dinamite delle future deflagrazioni”.

Con la lucidità che lo caratterizza nell'analizzare i fenomeni sociali, aggiunge,  che

la sola via d’uscita dai disagi di oggi e dalle disgrazie di domani passa per il rifiuto delle insidiose tentazioni di separazione”.

La strada non è né breve, né semplice, anzi, con tempi lunghi, irrequieti e laceranti, ma non si intravede una via più comoda, meno rischiosa.
Il primo ostacolo da aggirare sono il rifiuto del dialogo e il silenzio, figli di un’indifferenza letale per tutti.

L’autore, ora, si sofferma saggiamente sulle illuminate e sapide parole di Papa Francesco, sul vizio o peccato dell’indifferenza, riportando le parole pronunciate l’8 luglio 2013, in occasione della sua visita a Lampedusa proprio per scuotere le coscienze e le mani dei potenti, dopo una serie di tragici naufragi nel Mediterraneo.

Papa Francesco a Lampedusa ha detto, tra le altre cose:

… la cultura del benessere ci rende insensibili alle grida degli altri, viviamo come in bolle di sapone e ci fanno cadere nella globalizzazione dell’indifferenza”.

Oggi, una delle parole d’ordine, spesso imprescindibile, è “sicurezza”. I politici facendosi forza con l’ambiguità nel significato della parola, spesso utilizzano a loro favore il termine sicurezza, gonfiando l’inquietudine che monta per poi intervenire con i “bicipiti” per coprire l’inadeguatezza nella soluzione di compiti e problemi complessi.L’autore conia un termine molto efficace: “securitizzazione”. 

Essa è come un

trucco da prestigiatore; consiste nel dirottare l’ansia dei problemi i governi non sanno risolvere ad altri problemi cui i governi possono quotidianamente mostrarsi intenti a lavorare alacremente”.

Cita la soluzione ungherese di Orban ai migranti, cioè quella di erigere un muro di filo spinato ai confini, che ha trovato favorevole la popolazione al 68%.Un opinionista USA ha sentenziato:

Grandi bugie generano grandi paure, che generano grandi desideri di grandi uomini forti”.

Inoltre, la politica di “securitizzazione” aiuta a tacitare preventivamente i rimorsi di coscienza che ci assalgono, riclassificando i migranti come possibili terroristi, superando così lo scoglio di una responsabilità morale, e sottraendo l’opinione pubblica dallo spazio della compassione e dall’istinto di cura.Il pensatore polacco va oltre e cita un avvertimento che è anche un appello:

L’arrivo massiccio di migranti avrà un impatto positivo, stimolando l’economia. Essi vogliono quello che vogliamo tutti: ‘qualcosa di meglio’. In realtà queste persone, anziché prendere, daranno un contributo alla nostra economia”.

La “securitizzazione” presta il fianco ad un’altra critica: essa fa il gioco di chi recluta i terroristi, in quanto il Daesh ha reclutato ben cinquemila europei nelle sue fila.
Chi sono?
Provengono da contesti di emarginazione (come nel caso degli attentati di Parigi). 

Si considerano vittime della sorte e il Daesh esercita fascino su di loro, per la sensazione finalmente di contare per qualcuno.In sintesi, chi identifica il problema migratorio con una eventuale scarsa sicurezza farà il gioco dei terroristi, infiammando sentimenti anti-islamici in Europa. Inoltre, spingerà la società verso la logica del “tanto peggio, tanto meglio”, facendo pendere di più la bilancia verso la scelta per la Jihad; infine il terzo obiettivo è far leva sulla dinamica della stigmatizzazione, cioè, confermare l’anomalia di chi è diverso da noi “normali”.

Chi subisce il marchio può avere due reazioni: o riceve un doloroso colpo al rispetto di sé con conseguenze senso di umiliazione; oppure leggere lo stigma come affronto lesivo ed infamante. Insomma la tendenza alla “securitizzazione” del problema migratorio porta a diverse conseguenze negative, potenzialmente micidiali.
Qualcuno ha sottolineato le possibili conseguenze nel lanciare un simile messaggio; cioè se l’America si chiudesse ai musulmani, il messaggio che ne salirebbe, avrà un grave effetto domino con serie implicazioni.
Per evitare di fare il gioco del Daesh bisognerà respingere le posizioni dei “noi o loro”, frutto di una islamofobia, che contribuisce invece alla radicalizzazione di giovani musulmani.

Un osservatore citato dall’autore conclude il suo pensiero asserendo che

Anziché far guerra al Daesh in Siria e in Iraq, le principali armi dell’Occidente contro il terrorismo sono gli investimenti sociali, l’inclusione sociale e l’integrazione a casa nostra”.

L’osservatore Robert Reich afferma che nella Campagna Presidenziale USA si aggira lo spettro dell’uomo forte, e riveste i panni di Donald Trump, nato dall’ansia che sì è impadronita della grande classe media americana, quello di finire in miseria, ma confidare nell’opera di un uomo forte è un

sogno da allucinazione e Trump usa ‘inganni da illusionista”,

chiosa l’osservatore e fa leva su una riconversione di una paura “cosmica” dell’uomo in paura “ufficiale”, reale del potere costruito dall’uomo ma incapace di opporvisi e i poteri terreni traggono alimento e forza da ciò. Ma vi sono due nuovi elementi che portano a riconsiderare il modello appena indicato:

l’individualizzazione che dice a ciascuno di affrontare da sé e trovare le soluzioni ai problemi dell’insicurezza ed incertezza della vita”.

Questo modo di agire della società porta allo sviluppo e ad entrare in quella che viene definita “società della prestazione”, con le conseguenze che ne derivano, prima delle quali, la malattia della depressione, dovuta ad un eccesso di responsabilità e di obblighi dovuti all’imperativo della prestazione. 

Si delinea così la società della prestazione individuale, imperniata su una “cultura individualistica”, e la responsabilità di una vita vivibile viene caricata sulle spalle del singolo, non importa se è fragile o senza strumenti per affrontarla.
Partendo da qui, il passo per arrivare alla paura di essere inadeguati, non adatti per affrontare la società della prestazione, diviene veramente breve.

Il secondo elemento è l’erosione delle sovranità politiche, perché alla globalizzazione del potere non segue una globalizzazione della politica.
Già 25 anni fa E. Hobsbawn scriveva:

Xenofobia e razzismi sono sintomi non terapie, nelle società contemporanee, comunità e gruppi etnici sono destinati a coesistere, al di là della retorica del sogno del ritorno alla nazione esente ma miscugli razziali”.

La tentazione che sale dalla pancia è quella

che le società in crisi ripongano le speranze in un salvatore, in un uomo della provvidenza che propugni in nazionalismo massiccio e bellicoso, richiudendo le porte ormai scardinate”,

osserva Bauman.
Oggi viviamo in un mondo cosmopolita, ma manca ancora una coscienza cosmopolita e Bauman, citando ancora Robert Reich, bolla come

sogni da allucinazione le promesse di Donald Trump o come inganni da illusionista, quelli proibendo l’arrivo di immigrati”.

Il problema è che queste scorciatoie sibilline, sono, si, fuorvianti dalla realtà, ma non per questo meno seducenti, e con la parola promettono che loro saranno l’alternativa e la soluzione ai loro problemi.Storicamente, le prime migrazioni sembra fossero limitate al continente africano, ma alcuni discendenti dell’homo sapiens emigrarono verso il Medio Oriente e da lì si dispersero verso gli altri continenti. Essi erano dei migranti fino al midollo, era parte integrante del loro modo di vivere.

La Terra è stata completamente colonizzata e ogni uomo ha potenzialmente la possibilità di entrare in contatto con uno qualsiasi dei sette miliardi di abitanti della Terra.
Possiamo condividere ogni cosa creata con ciascuno, ma anche imporle loro: diviene così una sfida globale che può essere anche quella di una “vita comune o di morte comune”.
È il bivio dell’esistenza: o il benessere fondato sulla collaborazione o l’estinzione collettiva, ma non possediamo ancora la consapevolezza della interdipendenza.L’autore, nella sua riflessione cita più volte Kant, nella sua opera “Per la pace perpetua”:

il diritto, e perciò ospitalità significa il diritto di uno straniero di non essere trattato ostilmente quando arriva sul suolo di un altro (…). Non è un diritto di essere ospitato, ma un diritto di visita, che spetta a tutti gli uomini (…) per il diritto al possesso comune della Terra e non potendo disperdersi all’infinito, devono infine sopportarsi a vicenda”.

Kant chiede che all’ostilità subentri l’ospitalità.
Purtroppo, dopo due secoli e guerre sanguinose, ancora esitiamo ad accogliere l’appello di Kant all’ospitalità.Nel proseguire la riflessione di Kant, l’autore di sofferma all’analisi amara che Hannah Arendt compie sui risultati non raggiunti con le tesi kantiane: anzi, negando la validità dei principi morali, in quanto tali, creando così

un conflitto tra la natura incondizionata della responsabilità morale e la sua negazione o sospensione nei confronti di alcuni esseri umani, si arriva alla produzione di una dissonanza cognitiva. (…) Il concetto di dissonanza cognitiva aiuta a spiegare le altrimenti incomprensibili divagazioni europee sul tema dei rifugiati che chiedono asilo”.

Inoltre, si opera una loro disumanizzazione utile per screditare i loro diritti escludendoli dai diritti di avere riconosciuti i diritti umani, con tutte le conseguenze che ne derivano.Aggiunge Bauman che sul pianeta si stima che i profughi siano duecento milioni e la finalità di creare due mondi separati potrebbe prevalere:

un mondo pulito, sano e visibile” e “un mondo residuale, i cosiddetti ‘altri’ oscuri, malati, invisibili. E i campi saranno il parcheggio, custodia di gruppi indesiderabili di ogni sorta”. 

E quegli “altri” saranno esclusi dallo sguardo, attenzione e coscienza dell’Occidente.Chi riesce a passare da un mondo all’altro, potrà farlo solo attraverso

corridoi, lettori di impronte digitali, telecamere, rilevatori di virus”.

Le prospettive per il futuro saranno quelle o di una guerra non convenzionale per ridurre i diritti dei migranti e mantenerli in una condizione di insicurezza e di vulnerabilità, altresì nella gestione della migrazione si trovi consenso un approccio incentrati sui diritti.Bauman parla di una europeizzazione della questione migratoria, gestita dalla UE che ha fallito, in quanto su un milione di profughi giunti in Europa, sono stati reinsediati solo 160 unità.

L’autore nel concludere il suo lavoro, ritorna a citare le sue guide che lo hanno accompagnato nella riflessione: Kant e Arendt hanno guidato l’autore nella presente riflessione, nel non cadere nel rischio delle semplificazioni nel problema delle crisi migratorie, il cui pensiero spesso, invece genera paura istintive, paure che, però, entrano in conflitto con un impulso morale spinto dalla visione delle miserie umane.L’Occidente ricco si sente oggi vittima di un destino avverso: quello di avere tanti disperati alle porte che bussano per non soccombere alla sorte avversa. Loro possono incarnare perfettamente il soggetto, la causa del vittimismo del nord ricco, se non fosse per la presenza di una forza di segno opposto: il fenomeno dell’incontro che porta ad un dialogo mirato, teso ad una comprensione reciproca.
Bauman, nel dar forza al suo ragionamento, cita la filosofia di Gadamer, ripresa da Jeff Malpas:

Comprendere significa definire un quadro o ‘orizzonte’ comune”.

Da qui scocca la scintilla che porta alla conversazione, a familiarizzare con i rispettivi mondi vissuti.
Per Bauman, la conversazione è la via maestra che conduce al reciproco comprendersi, rispettarsi e accordarsi, unico modo per giungere ad una convivenza pacifica.Questa è la via maestra che il grande pensatore polacco ci suggerisce al termine della sua profonda riflessione.

Germano Baldazzi 

Roma, 13 settembre 2016