Viva gli Anziani!

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martedì 27 settembre 2016

LA PACE DI ASSISI


27 ottobre 1986
Il dialogo tra le religioni trent’anni dopo

Di Riccardo Burigana

Pref. di Andrea Riccardi

Edizione del 2016
Edizioni Terra Santa (140pp.)


L’autore inizia il suo lavoro citando le parole pronunciate da Papa Francesco nel corso dell’udienza per il 50° anniversario della Dichiarazione Nostra Aetate, uno dei frutti più maturi dei lavori del Concilio Vaticano II. La Dichiarazione tratta dei rapporti tra religiosi cristiani e credenti in altre fedi. Papa Francesco ha ricordato come l’incontro di preghiera tra le religioni, voluto e realizzato da San Giovanni Paolo II il 27 ottobre del 1986, sia stato l’evento che abbia permesso di aprire una nuova stagione di dialogo, comprensione e collaborazione tra le religioni. Quella giornata di preghiera e digiuno, tutti insieme diede una svolta netta, in quanto aprì le religioni al nuovo orizzonte del dialogo che porta a costruire insieme la pace, mantenendo le proprie identità.

Nella prefazione, Andrea Riccardi, testimone diretto della giornata, cita il discorso di Papa Wojtyla: “La pace attende i suoi profeti”.
Già con questa frase il Papa fa intendere il desiderio di suscitare nuovi compagni di viaggio nel cammino verso la pace tra i popoli: da lì, si inizia a ragionare se dare un seguito, magari, annuale a quel primo grande incontro di preghiera di Assisi del 1986: le resistenze erano diverse, alcuni prelati cattolici pensavano dovesse rimanere come un “unicum”.
La Comunità di Sant’Egidio, con il sostegno di alcuni vescovi raccolse il testimone e gli incontri tra religioni per pregare per la pace sono proseguiti fedelmente ogni anno, in tante fino ad arrivare al 30° anniversario, appena celebrato nuovamente ad Assisi, con la partecipazione di Papa Francesco.

La preghiera del 1986 è stata un momento di svolta per la Chiesa Cattolica come per il mondo delle religioni.

L’autore ci accompagna rivivendo questo cammino durato trent’anni, in cui i lavori e i documenti usciti dal Concilio Vaticano II, hanno permesso la realizzazione di “Assisi 1986.
Nel suo lavoro, Burigana inizia spiegando i prodromi che hanno permesso l’evento di Assisi: il Concilio Vaticano II e i suoi Documenti, la sua recezione, i rapporti di dialogo con le altre religioni.
In particolare, Papa Paolo VI raccogliendo lo spirito del dialogo introdotto nel Concilio, compì alcuni passi fondamentali: creò un “Segretariato per i non cristiani”; promulgò l’enciclica “Ecclesiam suam”; infine compì un viaggio a Bombay, in India, per incontrare la spiritualità orientale, dove parlò dell’importanza di favorire un dialogo tra le fedi.

Il viaggio in India aveva seguito un altro evento storico: l’incontro fraterno a Gerusalemme, nel gennaio 1964, tra Papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora di Costantinopoli. Fu il primo passo nel tentativo di riavvicinare chiese sorelle che per troppi secoli avevano vissuto separate.
I diversi gesti di Paolo VI aprivano una nuova stagione per la Chiesa nel rapporto con gli altri credenti, frutti che matureranno negli anni.

Con Giovanni Paolo II i passi compiuti da Paolo VI matureranno con una velocità inattesa con l’invito ad Assisi
Francesco, il frate poverello di Assisi era un po’ l’icona del dialogo: il suo incontro con il Sultano per dialogare, senza rinunciare alla sua identità erano un simbolo. Così, come Assisi stessa è il luogo alto della fede, ma anche dell’accoglienza, del dialogo e naturalmente della preghiera.

La grande intuizione di San Giovanni Paolo II fu di intervenire con una preghiera fra le religioni, in un periodo storico in cui la politica internazionale era in stallo, a causa della Guerra Fredda in corso tra i due blocchi allora esistenti, il Papa sperava con il suo invito di dare uno scossone ad mondo ingessato, che pensava solo a riarmarsi sperando, così, di mantenere la pace con il bilanciamento delle armi, ma di essere sempre pronta a rispondere in caso di attacco.

Assisi 1986 diede effettivamente una scossa. E il sogno di San Giovanni Paolo II era che si continuasse a vivere lo spirito di pace sprigionato ad Assisi.
Al termine di quella storica giornata, in molti cercarono di dare una risposta, anche traducendo in una realtà quotidiana quanto vissuto in quella giornata: l’autore cita gli Incontri internazionali per la pace promossi dalla Comunità di Sant’Egidio già dal 1987 e proseguiti annualmente in diverse città europee (ma non solo), sempre con il desiderio di mantenere vivo lo “Spirito di Assisi”.

Dall’edizione del 1990 che si tenne a Bari, oltre alla preghiera, si svolgono degli incontri, delle tavole rotonde, momenti assembleari in cui parlare del problemi esistenti invitando esponenti politici, della cultura, uomini di buona volontà, tutti nello spirito di dare il proprio contributo personale alla pace, riaffermando che ogni uomo può essere un uomo di pace e fare la pace, portare pace.
L’azione di Giovanni Paolo II non si esaurì con la preghiera di Assisi: anzi, rappresentò il primo dei suoi grandi contributi per contribuire alla pace nel mondo.

L’autore, proseguendo nella sua analisi, si sofferma all’edizione del 2011, il 25° incontro.
A quell’anniversario così importante volle partecipare anche Ratzinger, ora divenuto Papa Benedetto XVI, che da cardinale non vedeva di buon occhio la prosecuzione di Assisi. Ma, il suo pensiero era maturato e i suoi dubbi si erano sciolti.
La nuova preghiera di Assisi fu una edizione particolare, oltre per la ricorrenza, anche per il coinvolgimento di personalità non legate alle religioni, e per la condanna decisa, senza mezzi termini, del pensiero che vorrebbe le religioni coinvolte con la violenza e con la guerra.

Nel concludere il lavoro, l’autore ci dice quanto dello Spirito di Assisi si possa trovare nel pensiero e nell’opera di Papa Francesco: lui, che da subito si è presentato come uomo di dialogo, di pace e dell’essere insieme nel condannare la violenza. Sono tanti e diversi i gesti di Papa Francesco che propendono per la scelta di lavorare per la pace e la convivenza, di rifiutare della cultura dello scarto, di richiamare ciascuno ad una preghiera costante per la pace in Siria, in Medio Oriente e in tanti altri paesi del mondo, in quanto un uomo di religione può essere solo un cercatore di pace.

Papa Wojtyla ha lasciato una grande eredità con la Preghiera per la Pace, l’eredità è stata raccolta e ha fruttificato con gli altri pontefici.
In un tempo in cui alcuni "profeti" hanno parlato di scontro di civiltà, tanti altri oggi riaffermano che la preghiera e il dialogo hanno una loro forza e, come conclude l’autore: 

Francesco chiede alla religione di essere pellegrina nel mondo e di portare con gioia e speranza, il patrimonio spirituale della propria identità, con la quale costruire ponti in servizio alla pace”.

Gli incontri di preghiera iniziati e ritornati quest'anno ad Assisi hanno permettono di incontrarsi tra differenti, tra uomini che difficilmente si incontrerebbero, e di dialogare, conoscersi e pregare. Premessa alla costruzione di ponti che rendono la vita più bella per tutti.

26 settembre 2016

Germano Baldazzi




martedì 13 settembre 2016

STRANIERI ALLE PORTE

Di Zygmunt Bauman

Edizione del 2016

Ed. Laterza (116pp.)

"Noi siamo un solo pianeta, una sola umanità. Quali che siano gli ostacolo, e quale che sia la loro apparente enormità, la conoscenza reciproca e la fusione di orizzonti rimangono la via maestra per arrivare alla convivenza pacifica e vantaggiosa per tutti, collaborativa e solidale. Non ci sono alternative praticabili. La 'crisi migratoria' ci rivela l'attuale stato del mondo, il destino che abbiamo in comune". (dalla IV di copertina)



L’autore, grande intellettuale e profondo conoscitore della società, dopo aver analizzato sotto diversi aspetti con diversi studi i movimenti nella modernità e nella società contemporanea, con questo nuovo lavoro si appresta a fare il punto sulla questione della migrazione e della reazione della società a questo fenomeno ormai ineludibile. L’incipit è chiaro:

Le migrazioni di massa non sono certo un fenomeno nuovo: hanno accompagnato tutta l’età moderna fin dai suoi albori”.

I fattori che provocano le migrazioni sono essenzialmente due: il mondo dell’impresa nel mondo occidentale desidera e accoglie possibili lavoratori e manodopera a buon mercato, ma, d’altro canto, la popolazione su cui grava una precarietà dovuta ad una persistente crisi economica, risente di una incertezza nella speranza che le cose possano migliorare ed è preoccupata per una maggiore concorrenza sul mondo del lavoro.
Inoltre, allo stato attuale, non ci sono elementi per prevedere un decisivo arresto delle grandi migrazioni, o che vengano meno gli stimoli per chi si vede costretto a lasciare la propria terra.Negli ultimi anni vi è stato un forte aumento di profughi e richiedenti asilo, dovuto al moltiplicarsi di stati - i cui regimi dittatoriali o democratici sono “falliti” o “fatti fallire” - come di territori senza stato e senza legge, con guerre estenuanti e senza fine. E questo sono i danni collaterali delle malaugurate e disastrose campagne di guerra in Afghanistan e in Iraq, che hanno – si - deposto dittatori, ma hanno anche consegnato i paesi all’anarchia e al mercato delle armi senza controllo, nelle mani di mercenari senza scrupoli, talvolta con il sostegno di governi disposti a tutto per far aumentare il PIL.

Oltre a chi fugge dalle guerre e persecuzioni, si aggiungono i cosiddetti migranti economici, cioè, coloro che preferiscono abbandonare tutto, pur di trovare una terra dove poter vivere con dignità.
Nei primi cinquanta anni del XX secolo, i migranti sono stati circa 60 milioni, e dal 2000 al 2010 la tendenza non è certo diminuita. Senza interventi, secondo gli esperti, il numero dei migranti potrebbe aumentare fino a raggiungere un punto di equilibrio in cui livelli di benessere tra i settori “sviluppati” e quelli “in via di sviluppo” del pianeta globalizzato, si allineino. Ma, per arrivare ad un simile risultato occorreranno decenni, con tutti i possibili imprevisti della storia!

I profughi sono sempre “stranieri”, etimologicamente, la parola deriva da “strani” e, come tali, gli strani provocano ansia. La causa di questo processo è dovuta al fatto che sugli stranieri sappiamo troppo poco e non sapere come comportarsi in una situazione, è una delle principali cause dell’ansia e della paura.
Tali sentimenti fanno il gioco, la fortuna della xenofobia e del razzismo: la conseguenza sono i successi elettorali di partiti e movimenti xenofobi, che ricevono voti dalla parte derelitta, impoverita ed esclusa della società, la quale vede nei diversi una causa ulteriore della loro miseria.  

L’autore osserva come, per una sorta di

logica perversa (…), quei nomadi ci ricordano in modo irritante quanto vulnerabili siano la nostra posizione nella società e la fragilità del nostro benessere”.

Il loro involontario messaggio, cioè, che siamo così impotenti davanti ai rovesci della storia, viene alleviato dalla collera che riversiamo nei confronti dei disperati che affollano le coste, collera che allenta per un attimo il senso di impotenza, ma che non risolve, né la loro disperazione, e nemmeno la nostra frustrazione dovuta alla crisi o all’impotenza verso una reazione alla crisi.

Bauman rileva:

Una politica basata sulla reciproca separazione e sul mantenimento delle distanze; una politica che se ne lava le mani, non porta da nessuna parte se non al deserto della sfiducia”.

E ancora:

Queste politiche suicide in realtà accumulano la dinamite delle future deflagrazioni”.

Con la lucidità che lo caratterizza nell'analizzare i fenomeni sociali, aggiunge,  che

la sola via d’uscita dai disagi di oggi e dalle disgrazie di domani passa per il rifiuto delle insidiose tentazioni di separazione”.

La strada non è né breve, né semplice, anzi, con tempi lunghi, irrequieti e laceranti, ma non si intravede una via più comoda, meno rischiosa.
Il primo ostacolo da aggirare sono il rifiuto del dialogo e il silenzio, figli di un’indifferenza letale per tutti.

L’autore, ora, si sofferma saggiamente sulle illuminate e sapide parole di Papa Francesco, sul vizio o peccato dell’indifferenza, riportando le parole pronunciate l’8 luglio 2013, in occasione della sua visita a Lampedusa proprio per scuotere le coscienze e le mani dei potenti, dopo una serie di tragici naufragi nel Mediterraneo.

Papa Francesco a Lampedusa ha detto, tra le altre cose:

… la cultura del benessere ci rende insensibili alle grida degli altri, viviamo come in bolle di sapone e ci fanno cadere nella globalizzazione dell’indifferenza”.

Oggi, una delle parole d’ordine, spesso imprescindibile, è “sicurezza”. I politici facendosi forza con l’ambiguità nel significato della parola, spesso utilizzano a loro favore il termine sicurezza, gonfiando l’inquietudine che monta per poi intervenire con i “bicipiti” per coprire l’inadeguatezza nella soluzione di compiti e problemi complessi.L’autore conia un termine molto efficace: “securitizzazione”. 

Essa è come un

trucco da prestigiatore; consiste nel dirottare l’ansia dei problemi i governi non sanno risolvere ad altri problemi cui i governi possono quotidianamente mostrarsi intenti a lavorare alacremente”.

Cita la soluzione ungherese di Orban ai migranti, cioè quella di erigere un muro di filo spinato ai confini, che ha trovato favorevole la popolazione al 68%.Un opinionista USA ha sentenziato:

Grandi bugie generano grandi paure, che generano grandi desideri di grandi uomini forti”.

Inoltre, la politica di “securitizzazione” aiuta a tacitare preventivamente i rimorsi di coscienza che ci assalgono, riclassificando i migranti come possibili terroristi, superando così lo scoglio di una responsabilità morale, e sottraendo l’opinione pubblica dallo spazio della compassione e dall’istinto di cura.Il pensatore polacco va oltre e cita un avvertimento che è anche un appello:

L’arrivo massiccio di migranti avrà un impatto positivo, stimolando l’economia. Essi vogliono quello che vogliamo tutti: ‘qualcosa di meglio’. In realtà queste persone, anziché prendere, daranno un contributo alla nostra economia”.

La “securitizzazione” presta il fianco ad un’altra critica: essa fa il gioco di chi recluta i terroristi, in quanto il Daesh ha reclutato ben cinquemila europei nelle sue fila.
Chi sono?
Provengono da contesti di emarginazione (come nel caso degli attentati di Parigi). 

Si considerano vittime della sorte e il Daesh esercita fascino su di loro, per la sensazione finalmente di contare per qualcuno.In sintesi, chi identifica il problema migratorio con una eventuale scarsa sicurezza farà il gioco dei terroristi, infiammando sentimenti anti-islamici in Europa. Inoltre, spingerà la società verso la logica del “tanto peggio, tanto meglio”, facendo pendere di più la bilancia verso la scelta per la Jihad; infine il terzo obiettivo è far leva sulla dinamica della stigmatizzazione, cioè, confermare l’anomalia di chi è diverso da noi “normali”.

Chi subisce il marchio può avere due reazioni: o riceve un doloroso colpo al rispetto di sé con conseguenze senso di umiliazione; oppure leggere lo stigma come affronto lesivo ed infamante. Insomma la tendenza alla “securitizzazione” del problema migratorio porta a diverse conseguenze negative, potenzialmente micidiali.
Qualcuno ha sottolineato le possibili conseguenze nel lanciare un simile messaggio; cioè se l’America si chiudesse ai musulmani, il messaggio che ne salirebbe, avrà un grave effetto domino con serie implicazioni.
Per evitare di fare il gioco del Daesh bisognerà respingere le posizioni dei “noi o loro”, frutto di una islamofobia, che contribuisce invece alla radicalizzazione di giovani musulmani.

Un osservatore citato dall’autore conclude il suo pensiero asserendo che

Anziché far guerra al Daesh in Siria e in Iraq, le principali armi dell’Occidente contro il terrorismo sono gli investimenti sociali, l’inclusione sociale e l’integrazione a casa nostra”.

L’osservatore Robert Reich afferma che nella Campagna Presidenziale USA si aggira lo spettro dell’uomo forte, e riveste i panni di Donald Trump, nato dall’ansia che sì è impadronita della grande classe media americana, quello di finire in miseria, ma confidare nell’opera di un uomo forte è un

sogno da allucinazione e Trump usa ‘inganni da illusionista”,

chiosa l’osservatore e fa leva su una riconversione di una paura “cosmica” dell’uomo in paura “ufficiale”, reale del potere costruito dall’uomo ma incapace di opporvisi e i poteri terreni traggono alimento e forza da ciò. Ma vi sono due nuovi elementi che portano a riconsiderare il modello appena indicato:

l’individualizzazione che dice a ciascuno di affrontare da sé e trovare le soluzioni ai problemi dell’insicurezza ed incertezza della vita”.

Questo modo di agire della società porta allo sviluppo e ad entrare in quella che viene definita “società della prestazione”, con le conseguenze che ne derivano, prima delle quali, la malattia della depressione, dovuta ad un eccesso di responsabilità e di obblighi dovuti all’imperativo della prestazione. 

Si delinea così la società della prestazione individuale, imperniata su una “cultura individualistica”, e la responsabilità di una vita vivibile viene caricata sulle spalle del singolo, non importa se è fragile o senza strumenti per affrontarla.
Partendo da qui, il passo per arrivare alla paura di essere inadeguati, non adatti per affrontare la società della prestazione, diviene veramente breve.

Il secondo elemento è l’erosione delle sovranità politiche, perché alla globalizzazione del potere non segue una globalizzazione della politica.
Già 25 anni fa E. Hobsbawn scriveva:

Xenofobia e razzismi sono sintomi non terapie, nelle società contemporanee, comunità e gruppi etnici sono destinati a coesistere, al di là della retorica del sogno del ritorno alla nazione esente ma miscugli razziali”.

La tentazione che sale dalla pancia è quella

che le società in crisi ripongano le speranze in un salvatore, in un uomo della provvidenza che propugni in nazionalismo massiccio e bellicoso, richiudendo le porte ormai scardinate”,

osserva Bauman.
Oggi viviamo in un mondo cosmopolita, ma manca ancora una coscienza cosmopolita e Bauman, citando ancora Robert Reich, bolla come

sogni da allucinazione le promesse di Donald Trump o come inganni da illusionista, quelli proibendo l’arrivo di immigrati”.

Il problema è che queste scorciatoie sibilline, sono, si, fuorvianti dalla realtà, ma non per questo meno seducenti, e con la parola promettono che loro saranno l’alternativa e la soluzione ai loro problemi.Storicamente, le prime migrazioni sembra fossero limitate al continente africano, ma alcuni discendenti dell’homo sapiens emigrarono verso il Medio Oriente e da lì si dispersero verso gli altri continenti. Essi erano dei migranti fino al midollo, era parte integrante del loro modo di vivere.

La Terra è stata completamente colonizzata e ogni uomo ha potenzialmente la possibilità di entrare in contatto con uno qualsiasi dei sette miliardi di abitanti della Terra.
Possiamo condividere ogni cosa creata con ciascuno, ma anche imporle loro: diviene così una sfida globale che può essere anche quella di una “vita comune o di morte comune”.
È il bivio dell’esistenza: o il benessere fondato sulla collaborazione o l’estinzione collettiva, ma non possediamo ancora la consapevolezza della interdipendenza.L’autore, nella sua riflessione cita più volte Kant, nella sua opera “Per la pace perpetua”:

il diritto, e perciò ospitalità significa il diritto di uno straniero di non essere trattato ostilmente quando arriva sul suolo di un altro (…). Non è un diritto di essere ospitato, ma un diritto di visita, che spetta a tutti gli uomini (…) per il diritto al possesso comune della Terra e non potendo disperdersi all’infinito, devono infine sopportarsi a vicenda”.

Kant chiede che all’ostilità subentri l’ospitalità.
Purtroppo, dopo due secoli e guerre sanguinose, ancora esitiamo ad accogliere l’appello di Kant all’ospitalità.Nel proseguire la riflessione di Kant, l’autore di sofferma all’analisi amara che Hannah Arendt compie sui risultati non raggiunti con le tesi kantiane: anzi, negando la validità dei principi morali, in quanto tali, creando così

un conflitto tra la natura incondizionata della responsabilità morale e la sua negazione o sospensione nei confronti di alcuni esseri umani, si arriva alla produzione di una dissonanza cognitiva. (…) Il concetto di dissonanza cognitiva aiuta a spiegare le altrimenti incomprensibili divagazioni europee sul tema dei rifugiati che chiedono asilo”.

Inoltre, si opera una loro disumanizzazione utile per screditare i loro diritti escludendoli dai diritti di avere riconosciuti i diritti umani, con tutte le conseguenze che ne derivano.Aggiunge Bauman che sul pianeta si stima che i profughi siano duecento milioni e la finalità di creare due mondi separati potrebbe prevalere:

un mondo pulito, sano e visibile” e “un mondo residuale, i cosiddetti ‘altri’ oscuri, malati, invisibili. E i campi saranno il parcheggio, custodia di gruppi indesiderabili di ogni sorta”. 

E quegli “altri” saranno esclusi dallo sguardo, attenzione e coscienza dell’Occidente.Chi riesce a passare da un mondo all’altro, potrà farlo solo attraverso

corridoi, lettori di impronte digitali, telecamere, rilevatori di virus”.

Le prospettive per il futuro saranno quelle o di una guerra non convenzionale per ridurre i diritti dei migranti e mantenerli in una condizione di insicurezza e di vulnerabilità, altresì nella gestione della migrazione si trovi consenso un approccio incentrati sui diritti.Bauman parla di una europeizzazione della questione migratoria, gestita dalla UE che ha fallito, in quanto su un milione di profughi giunti in Europa, sono stati reinsediati solo 160 unità.

L’autore nel concludere il suo lavoro, ritorna a citare le sue guide che lo hanno accompagnato nella riflessione: Kant e Arendt hanno guidato l’autore nella presente riflessione, nel non cadere nel rischio delle semplificazioni nel problema delle crisi migratorie, il cui pensiero spesso, invece genera paura istintive, paure che, però, entrano in conflitto con un impulso morale spinto dalla visione delle miserie umane.L’Occidente ricco si sente oggi vittima di un destino avverso: quello di avere tanti disperati alle porte che bussano per non soccombere alla sorte avversa. Loro possono incarnare perfettamente il soggetto, la causa del vittimismo del nord ricco, se non fosse per la presenza di una forza di segno opposto: il fenomeno dell’incontro che porta ad un dialogo mirato, teso ad una comprensione reciproca.
Bauman, nel dar forza al suo ragionamento, cita la filosofia di Gadamer, ripresa da Jeff Malpas:

Comprendere significa definire un quadro o ‘orizzonte’ comune”.

Da qui scocca la scintilla che porta alla conversazione, a familiarizzare con i rispettivi mondi vissuti.
Per Bauman, la conversazione è la via maestra che conduce al reciproco comprendersi, rispettarsi e accordarsi, unico modo per giungere ad una convivenza pacifica.Questa è la via maestra che il grande pensatore polacco ci suggerisce al termine della sua profonda riflessione.

Germano Baldazzi 

Roma, 13 settembre 2016


venerdì 9 settembre 2016

MIO FRATELLO RINCORRE I DINOSAURI

Storia mia e di Giovanni che ha un cromosoma in più


Di Giacomo Mazzariol

 



Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi, lui passerà tutta la vita a considerarsi uno stupido

(ALBERT EINSTEIN)


Edizione recensita del 2016,
Einaudi (pag. 180)

Giacomo ci presenta la storia di suo fratello Giovanni, un fratello speciale.
Già nell’incipit il giovane autore ci fa intuire che siamo di fronte ad un libro con una storia speciale, molto tenera, fatta anche di durezze, di difficoltà, ma in cui il fratellino Giovanni, con la sua simpatia, riuscirà anche a sciogliere le resistenze e la sufficienza di chiunque gli si rivolga.

Giovanni che va a prendere il gelato.

-         Cono o coppetta?
-         Cono!
-         Ma se il cono non lo mangi.
-         E allora? Neanche la coppetta la mangio!

Giovanni ha tredici anni e un sorriso più largo dei suoi occhiali. Che ama i dinosauri e il rosso; che va al cinema con una sua compagna, torna a casa e annuncia: «Mi sono sposato».
Giovanni che balla in mezzo alla piazza, da solo, al ritmo della musica di un artista di strada, e uno dopo l’altro i passanti si sciolgono e cominciano ad imitarlo. Giovanni che il tempo sono sempre venti minuti, mai più di venti minuti. Giovanni che sa essere estenuante, logorante, che ogni giorno va in giardino e porta un fiore alle sorelle. E se è inverno e non lo trova, porta loro foglie secche”.

All’inizio del racconto, Giacomo aveva sette anni. Un bel giorno, mentre con le sue due sorelline erano di ritorno a casa, improvvisamente papà Maurilio si ferma con la macchina e, d’accordo con la mamma Katia, annunciano ai figli, senza introduzioni: “Due a due!”
Giacomo temeva di non aver capito bene, così i genitori confermano a Giacomo che la mamma aspettava un fratellino. Lui, a quel punto, non è più nella pelle per la gioia: avrebbero così ripristinato la parità di sesso a casa!

Inizia così, dopo il grande annuncio, tutta la sarabanda dei pensieri del caso, sul nome da scegliere, dall’accoglienza da organizzare, dai pupazzi da acquistare per il nuovo venuto, come anche quello di trasferirsi in una casa nuova, più grande, più spaziosa.
Ma, intanto, il nome: dopo una serie di suggerimenti, tutti alquanto improbabili proposti da Giacomo e dalle sorelle, si propese per il nome Giovanni.
Giacomo, il più felice di tutti per la novità aveva già fatto comprare un peluche da lui scelto da regalare al fratellino in arrivo.

Un’altra domenica, di nuovo insieme, in macchina, i genitori allo stesso modo si rifermarono con la macchina, per dare un nuovo annuncio riguardo al loro futuro fratello: confermando il lieto evento, aggiungono solo che quello in arrivo sarà un fratello “speciale”, che sarà affettuosissimo e che avrà i suoi tempi…
Papà Maurilio aggiunse solo che era una “notizia travolgente”.
Giacomo non capì bene, ma intuì che qualcosa di straordinario stava per accadere. Aveva già iniziato a vederlo, e immaginava che stesse per nascere un fratellino supereroe, già con il mantello indosso!

Alcuni mesi dopo, Giovanni nasce e a arriva a casa. Tutta la famigliola si fece attorno ad ammirarlo nella culla.
Giacomo, osservandolo, notò qualcosa di particolare e chiese al papà con la naturalezza che i bambini sanno avere…: “Papà, da dove arriva? Non è di questo pianeta. E’ evidente.”
Il papà con altrettanta semplicità rispose con calore: “Te l’avevamo detto – stringendo il figlio a sé – che era speciale”.
Giacomo notò i tratti del viso e degli occhi, come se fosse un bimbo cinese e poi la nuca piatta. Inoltre, i piedi: Giovanni aveva solo quattro dita, “il minolo e il pondolo erano fusi insieme, come due Kit Kat” osservò.

Dopo aver fissato a lungo il fratellino speciale, Giacomo andò dalla mamma, quasi nella speranza di ricevere una spiegazione di qualcosa che ancora non capiva.
La mamma, con affetto e calore, spiegò al figlio che alcune cose si possono governare, altre bisogna prenderle come vengono. La vita è molto più grande e come tale, complessa e misteriosa; l’unica cosa che si può sempre scegliere è amare, amare senza condizioni.
Con queste parole e con il suo viso Katia aveva comunicato al figlio l’essenziale nel rapporto con il fratellino: cioè, come - in effetti - per tutti i bambini, anche lui avrebbe avuto bisogno di tantissimo amore!

Iniziavano, così, i primi contatti e i primi rapporti con il piccolo Giovanni.

La mamma aveva una grande passione per i libri. Leggeva di tutto e li disseminava per tutta la casa. Giacomo un giorno vide in particolare un libro di un autore straniero e il cui titolo anch’esso conteneva una parola straniera, che non conosceva. La parola straniera era “down” ed era preceduta da un’altra parola il cui significato, anch’esso, non era ben chiaro: “sindrome”. Per avere maggiori elementi, Giacomo aprì il libro e si soffermò su una fotografia: sembrava una foto di Giovanni.
A questo punto Giacomo, raggiunse i genitori in cucina, chiedendo lumi su quando aveva visto su quel libro. Con molta calma spiegarono al figlio che Giovanni non era malato, era nato affetto da questa sindrome, ma che non era altro che un aspetto della sua vita. Ma, a loro interessava Giovanni, non la sindrome.
Senza agitazione, spiegarono a Giacomo che Giovanni crescendo incontrerà delle difficoltà, sarà più lento ad apprendere, sarà un po’ più cagionevole di salute, non potrà fare alcune cose come andare in bicicletta o arrampicarsi sugli alberi,ma l’essenziale sarà volergli bene.
I primi anni furono di scoperte continue, sui gusti, preferenze, modi per aiutarlo, e tutto sempre con serafica serenità.

Giacomo si sofferma un attimo a parlare della madre e della sua scelta preferenziale per la famiglia: lasciò l’università a due esami dalla fine per curare la famiglia. Aveva scelto di essere “un’imprenditrice della famiglia”: cioè, investiva ogni giorno tutto il tempo sui suoi figli, anche perché – ci conferma Giacomo – di soldi da investire in famiglia ve n’erano davvero pochi. Ma loro non se n’erano mai accorti a casa, come anche di eventuali problemi che erano insorti.

Giovanni, intanto, superando piccoli e grandi problemi di salute, cresceva e a Giacomo si presentava il problema di entrare nella vita quotidiana con il suo nuovo fratello. Con nessuno dei suoi compagni di scuola delle medie aveva ancora parlato di lui, in fondo si vergognava della sua diversità.

Un giorno Giacomo si accorse che il suo fratellino aveva iniziato ad imitarlo, ad avere i suoi stessi gusti, ad appendere in camera poster simili a i suoi, persino ad avere il suo stesso numero di libri!

Per Giacomo fu come se si fosse ridestato da un sonno e comprese d’aver smesso di chiedersi le cose, di pensare a come convivere con le fragilità del fratello. Mentre, invece, aveva pensato come trovare un suo equilibrio, non chiedendo, non volendo sapere, per paura delle risposte.
Con questa nuova consapevolezza, iniziò ad osservare il fratellino con occhi più attenti, interessati. E subito balzò ai suoi occhi come Giacomo avesse un talento particolare: sapeva creare una storia, un rapporto esclusivo con ogni persona che gli gravitava attorno. Sapeva essere diverso con tutti, pur rimanendo sé stesso.

I due fratelli crescevano e Giacomo iniziò ad avere difficoltà nel divertirsi con il fratello, fino a quando una nuova illuminazione lo colse:

Giovanni è una danza.
Il problema è sentire la sua stessa musica”.
                                                                                                                               
Insomma, Giovanni sapeva divertirsi nel suo modo, con i suoi giochi e per stare bene insieme a Giovanni, come con tutti gli altri, doveva entrare nel suo mondo di giochi: un giorno era un esploratore, poi un ricercatore, non andava sull’altalena o sullo scivolo, ma saliva su un castelletto e organizzava eruzioni di sabbia da vulcani immaginari.

Talvolta accadeva che dovesse “difenderlo” da qualche bullo di turno o comportamenti infelici nei suoi confronti, senza avere il coraggio di farlo, fino a che un giorno, la sua amica Alice le insegnò che con l’ironia si può fare molto…

Insomma, crescendo insieme, Giacomo comprese che stavano scrivendo insieme la loro vita, ed era consapevole che sarebbe stata sua la responsabilità di come tutto sarebbe andato a finire. Scoprì anche la grandissima libertà con cui viveva il fratello, un maestro in questo, non si faceva mai problemi di forme, non aveva pregiudizi, non notava le facce strane…

La sua grande semplicità poteva essere un tesoro prezioso per tutti, perché Gio (diminutivo che usava il fratello) era incapace di recitare, fingere, essere altro da sé, e questo rendeva straordinari alcuni passaggi della loro vita.

Il volume si conclude con la preparazione del video “The Simple Interview” in cui Giacomo partecipa ad un finto colloquio di lavoro raccontando sé stesso, la sua vita e le sue aspirazioni, e rappresenta la chicca finale di questo bellissimo libro.


09 settembre 2016
Germano Baldazzi

giovedì 8 settembre 2016

GIOIA E LE ALTRE

Di Michelangelo Bartolo


«Non mi piace invecchiare, ma considerando l’alternativa…», dice Woody Allen in un’intervista. Oggi, in effetti, si vive di più e si vorrebbe vivere meglio; ma non sempre è così. Come nella storia di Gioia, nonna iperattiva che improvvisamente si trova a dover fare i conti con un corpo che non la segue più come desidererebbe.
Una famiglia presente, con figli a loro modo affettuosi ma che talvolta non comprendono le esigenze e i desideri di chi è anziano. E quando la debolezza del corpo si fa più evidente, la casa di riposo sembra essere l’unica soluzione, la più normale, la più fisiologica; soluzione a cui Gioia, in modo delicato e originale, si oppone.

Ne scaturisce una sorprendente alleanza tra generazioni da cui nascono nuove energie, nuove soluzioni, nuova voglia di vita. 
Da leggere!


Edizione del 2015
Città Nuova ed. (116pp.)

L’autore, Michelangelo Bartolo, è un medico angiologo, dirige il servizio di Telemedicina dell’Ospedale San Giovanni di Roma e, da alcuni anni, si cimenta anche nella stesura di romanzi con risultati molto apprezzati.
Questa è la sua terza opera di narrativa.

La protagonista del racconto è Gioia, una donna anziana piena di passioni e interessi, con l’entusiasmo di una bambina, vedova di un uomo amato, rimpianto e ammirato.
Il marito è stato un grande specialista dell’angiologia in Italia, professore universitario, primario ospedaliero, giunto alla soglia di godersi una tanto meritata pensione. Ma l’imponderabile era alla soglia: una malattia, insidiosa, lenta, diagnosticata quando era ancora in servizio, aveva scombussolato i suoi piani di  una felice e serena ritirata.
Al marito Mauro ben presto viene diagnosticato il morbo di Parkinson, condanna ad una vita sempre più limitata, da disabile, fino alla fine.
La moglie Gioia, anche lei alle prese con problemi di salute, combatte contro una fibrillazione atriale che la prova, ma non la ferma, non la vince.
Gioia trova nell’amore l’arma per continuare a combattere, inizia a scrivere un romanzo di successo sull’uomo della sua vita, occupandosi instancabilmente pure nell’impegno sociale e nella cura dei suoi nipotini.
La sua vita diviene oggettivamente più difficile, è più fragile, ma dopo un comprensibile iniziale smarrimento, reagisce e rifiuta la soluzione che può apparire più facile in certe situazioni quella del ricovero in una struttura sociosanitaria.
I suoi figli premono per un ricovero, adducendo difficoltà sempre maggiori nell’assistenza quotidiana. Lei capisce la difficoltà dei figli ma le sembra impossibile che l’unica soluzione esistente possa essere l’istituto. Non si rassegna alla naturalità del discorso dei figli che, in diversi modi, le dicono che non c’è posto per i vecchi in questa società.
Gioia ha ancora voglia di vivere: in lei sorge come un moto di ribellione assieme ad una voglia di lottare e, insieme all’amica Anna, lotta contro «la cultura dello scarto», quella di un mondo fatto solo per i sani, i forti, per coloro che hanno un futuro.

Allora, si documenta, si guarda intorno e studia libri che parlano di residenza a casa anche in caso di malattia, di convivenze organizzate, di consigli su come rimanere a casa propria da anziani.
Casualmente, sfogliando una rivista l’occhio cade su una lettera che le fa accendere una lampadina. Il titolo della lettera è:
Come non andare da anziani in istituto e rimanere a casa propria”.
Si tratta di una lunga lettera a firma di un’anziana di nome Maria che difende il suo diritto a rimanere a vivere i suoi ultimi giorni a casa propria, tra le sue cose, tra i suoi ricordi.

Inizia a leggerla: “Ho quasi settantacinque anni, vivo da sola a casa mia, la stessa in cui stavo con mio marito, quella che hanno lasciato i miei due figli quando si sono sposati.
Sono sempre stata fiera della mia autonomia, ma da un po' non è più come prima, soprattutto quando penso al mio futuro. Sono ancora autosufficiente, ma fino a quando?"

Poi prosegue: Sento spesso in giro chi dice: "L'abbiamo messo in un bell'istituto, per il suo bene". Magari sono sinceri, ma loro non ci vivono. Non è neppure un "male minore", ma necessario.
Quello che è peggio - ammesso che il mangiare non sia cattivo - è che non si può decidere quasi niente: quando alzarsi e quando restare a letto, quando accendere e quando spegnere la luce, quando e cosa mangiare. E poi, quando uno è più anziano (ed è più imbarazzato perché si sente meno bello di una volta), è costretto ad avere tutto in comune: malattia, debolezze fisiche, dolore, senza nessuna intimità e nessun pudore.
C'è che dice che in istituto "hai tutto senza pesare su nessuno". Ma non è vero. Non si ha tutto e non è l'unico modo per non dare fastidi ai propri cari.
Un'alternativa ci sarebbe: Poter stare a casa con un po' di assistenza e, quando si sta peggio o ci si ammala, poter essere aiutati a casa per quel tempo che serve".

La lettera si conclude con un appello: Per questo, anche se non più giovane, voglio ancora far sentire la mia voce e dire che in istituto non voglio andare e che non lo auguro a nessuno.
Aiutate me e tutti gli anziani a restare a casa e a morire fra le proprie cose. Forse vivrò di più, sicuramente vivrò meglio.

Gioia resta affascinata dalle parole della lettera di Maria e dalla lucidità con cui abbia espresso quelle che sono anche le sue ragioni di rimanere a casa propria

Condivide questa scoperta con la sua amica Anna, ed insieme iniziano a cercare in rete informazioni sull’autrice della lettera. Si imbattono così nel sito della Comunità di Sant’Egidio e trova la Lettera di Maria nell’homepage del sito. C’è un link che rimanda all’adesione della Lettera, Gioia clicca e scrive i suoi dati, per confermare.
Alcuni giorni dopo Gioia viene ricontattata da Rosanna, una volontaria della Comunità di Sant’Egidio a cui Gioia racconta come un fiume in piena tutta la sua vicenda e di come il suo futuro sia  l’istituzionalizzazione. La sua nuova amica le fa vedere il video dia YouTube in cui Andrea Camilleri commenta la lettera di Maria e chiede di poter fare qualcosa di concreto per sostenere i diritti degli anziani di vivere e morire a casa propria.
Gioia coinvolge appieno la sua amica Anna, le racconta tutto e nei giorni seguenti partecipano insieme a riunioni e seminari sulla condizione degli anziani.

Purtroppo nei giorni seguenti la sua amica Anna viene colpita e ferita da un male: un forte ictus vuole minare il loro nuovo impegno, ma Gioia non si abbatte e continua a documentarsi.                                                                                                                 

In uno dei suoi tanti momenti passati in libreria a cercare, informarsi, studiare, In particolare, si imbatte su di un titolo che la colpisce particolarmente:
La forza degli anni. Lezioni di vecchiaia per giovani e famiglie”.

Il testo è una miniera di informazioni per chi vuole restare a vivere a casa propria anche se anziano o malato. Gioia trova informazioni preziose, si spiega come si possa rimanere a vivere e casa propria anche con piccoli aiuti e accorgimenti.

Purtroppo, anche Anna viene colpita e ferita da un male: un forte ictus vuole minare il loro sogno, ma le vecchie amiche ormai vogliono tentare l’ultima carta, quella del co-housing, di una convivenza, idea suggerita ed enunciata con dovizia di particolari su come applicarla, nel volume ed insieme a Gioia mi mettono a studiare.

Nonostante i vari inconvenienti di salute delle protagoniste, la famiglia viene convinta e il finale è lieto: è la scena di una festa familiare in cui si accoglie Anna, in convalescenza in quella che diventa la sua nuova casa, insieme con Gioia.


Un libro molto agile, un romanzo che ha, tra gli altri, anche il merito di aprire nuove prospettive ed esperienze originali, narra il sogno di due donne avanti nell’età che hanno aperto la loro mente e il loro cuore, mai rassegnate al peggio, che scommettono ancora sul futuro.

Germano Baldazzi
         07 settembre 2016